«Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», ovvero l'etica della reciprocità, o regola d'oro, probabilmente l'unica grande regola che permetterebbe a qualunque cultura, o civiltà, presente su questo pianeta di vivere in armonia con il prossimo; l'unica regola che basterebbe a mettere d'accordo tutti. Eppure sembra che siamo ancora lontani dal poter apprezzare e soprattutto saper applicare tale semplicità di vivere. Lo siamo ancor di più dall'applicarla al di là della nostra specie, che dopotutto è soltanto una tra altre 9 milioni di specie viventi che finora sappiamo popolare la Terra. Il nostro straordinario e inimitabile pianeta ospita la vita da circa 4 miliardi di anni. Un tempo incredibilmente lungo se lo compariamo alla manciata di milioni di anni durante cui l'uomo si è evoluto. E forse è proprio qui, nella nostra evoluzione, che troviamo la chiave per comprendere il motivo per cui non siamo in grado di esercitare la famosa e semplicissima regola d'oro. Forse, infatti, è semplicemente ancora troppo presto perché ciò accada. In un gruppo intelligente in cui si esperiscono delle relazioni (tecnicamente "bonding", cioè legame) e in cui i legami sono estremamente importanti come per l’uomo, l’aspetto delle interazioni sociali deve aver avuto anche una valenza evoluzionistica. In qualche modo i legami sociali sono un’estensione di quel rapporto tra madre e figlio su cui tanti terapeuti hanno focalizzato l’attenzione. Quando la mamma, o chi per lei, ci parla lentamente, da vicino, producendo delle parole semplici e scandendo i suoni in maniera molto chiara, con il movimento delle labbra lento e ampio, ci aiuta a imitare, a comprendere, ad articolare quei suoni, così come accade per altri movimenti che vengono rispecchiati. Non per nulla i bambini sono dei grandi imitatori e riproducono ciò che vedono accadere intorno a loro. Questo accade grazie all'attivazione di un gruppo di neuroni, i cosiddetti neuroni specchio, presenti in un'area della corteccia frontale del nostro cervello, i quali portano il soggetto ad entrare in risonanza. Naturalmente ciò non deve ridursi all'idea di un meccanicismo cerebrale. In realtà ci sono aree dell'encefalo ben delimitate, che fanno parte del lobo frontale e in qualche modo sono legate al fatto che noi rispecchiamo i movimenti altrui, sia per quelle funzioni ritenute banali, quali i movimenti semplici, ma anche per funzioni più complesse, come quelle alla base dell'empatia. Un esperimento condotto a Roma dal gruppo di Salvatore Aglioti e Alessio Avenati ha mostrato che, quando noi assistiamo ad un'azione che apparentemente ci sembra nociva, come guardare uno sperimentatore che punge con uno spillo la mano di qualcuno, nel nostro cervello si attivano le aree che controllano gli stessi muscoli che vengono lesi dallo sperimentatore. Questo esperimento mostra che esiste un collegamento diretto tra la persona che viene danneggiata e quella che assiste alla scena, a dimostrazione della forza che possiede il meccanismo di risonanza. L'altro lato della medaglia, l'aspetto negativo, è rappresentato dal caso delle persone sadiche che godono nel veder fare del male anche se, in linea di massima, la nostra specie tende ad assicurare dei benefici agli altri, altrimenti si sarebbe autodistrutta da tempo. L'umanità ha delle forme di empatia e di razionalità che portano le persone ad assistere, ad aiutare, a favorire più che a distruggere, come dimostrano anche alcune professioni, come quella di psicoterapeuta, che agiscono attraverso questi meccanismi di risonanza cerebrale. Uno degli aspetti importanti alla base del cervello sociale è quello della comunicazione: nelle relazioni sociali dobbiamo esprimere delle emozioni e cogliere il significato delle emozioni altrui. È ormai certo che questo aspetto abbia delle valenze interculturali in quanto in tutto il mondo alcune emozioni di base, come la rabbia, la paura, la gioia, etc., si esprimono e si riconoscono in una mimica facciale tipica, studiata già dai tempi di Darwin quando il campo delle espressioni facciali e del loro significato avevano già ricevuto un’alta considerazione. Tutte le ricerche effettuate finora in campo neuroscientifico, senza escludere importanti ricerche anche in ambito etologico, come quelle descritte da Konrad Lorenz nel suo L'anello di re Salomone, per esempio, dimostrano che vi sono delle tappe dello sviluppo nelle quali si manifestano sia dei meccanismi tipici della specie, sia dei meccanismi che invece vengono introiettati attraverso l’esperienza. Schematizzando si può graficamente tracciare una scala: se noi consideriamo lo sviluppo dell’attaccamento infantile notiamo che segue le tappe della maturazione cerebrale del neonato il quale manifesta tutto quello che può in base alla maturazione del suo sistema nervoso. La stessa cosa avviene anche dal punto di vista motorio, ma si nota subito che il neonato possiede dei "prerequisiti", per esempio quelli immediati della ricerca del seno, i meccanismi della suzione, quelli della mano-bocca, e così via. In seguito, la comparsa del sorriso preferenziale diviene un importante meccanismo nel generare attaccamento, la vocalizzazione, lo scambio di occhiate e la capacità di riconoscere selettivamente la voce materna già alla nascita. Poi ci sono dei meccanismi che si manifestano più tardi. Dal quarto al sesto mese in poi si verifica la formazione del legame specifico, la paura degli estranei, la ricerca spontanea, la comparsa dell'ansia legata alla separazione e poi, con la deambulazione, la comparsa dei meccanismi di autonomia con l'esplorazione. In questa fase si nota un certo bipolarismo tra le necessità dell'attaccamento, che avvertiremo in tutto l'arco della nostra vita, e la necessità di autonomia che si sviluppa anche attraverso l'uso dell'oggetto transizionale. Riassumendo abbiamo detto che esiste un cervello sociale legato ad alcune aree cerebrali che svolgono funzioni varie: la giunzione temporo-parietale, ad esempio, si attiva quando pensiamo a "stati mentali": se io penso a quale possa essere lo stato mentale di chi mi guarda posso immedesimarmi nel pensiero degli altri. Questo è un importantissimo meccanismo, alla base delle teorie della mente, che matura progressivamente nel bambino nel momento in cui comincia a pensare che anche un altro bambino possa avere alcuni dei suoi pensieri, o possa sentire male se lui gli fa male, e così via, quando si "mette" nella mente dell'altro. Un'altra struttura rilevante per il cervello sociale è il solco temporale posteriore che è importante nella comprensione delle espressioni facciali altrui e che, se danneggiato, porta alla prosopagnosia, cioè all’incapacità di riconoscere correttamente i volti delle persone o comprendere che tipo di emozioni esprimono le loro facce. Il cervello è una collezione di aree che entrano ovviamente in sintonia tra loro. Ognuna di queste aree possiede una propria specificità e produce delle informazioni che in seguito dovranno passare attraverso una struttura centralizzata avente il compito di integrarle, coordinarle e fornire una lettura. Grazie alle tecniche sempre più evolute di Brain Imaging il cervello viene mappato sempre più dettagliatamente. Esiste una vera e propria geografia cerebrale anche per le emozioni, i comportamenti sociali, l'empatia, la capacità di riconoscere le somiglianze o le differenze, le dinamiche che riguardano la sfera intima e così via. Queste tecniche ci hanno consentito di mappare le funzioni mentali, che come è ovvio sono estremamente individuali, e di localizzare con maggiore precisione alcune di queste funzioni. Ciò non vuol dire un ritorno al rigido localizzazionismo delle mappe dei frenologi dell' '800, però evidenzia che nel momento in cui esperiamo degli stati mentali che riguardano anche la socialità il nostro cervello entra in funzione. Questi processi maturano con grande lentezza nella nostra specie. Il genere umano matura lentamente e tardivamente e ciò costituisce un grande vantaggio rispetto ad altre specie animali. Le specie precoci nascono con un pacchetto di informazioni innato, programmi piuttosto rigidi, che permette loro di adattarsi all'ambiente. La nostra specie ha seguito un'altra strategia evolutiva che è quella di nascere con pochi istinti, quelli necessari per la sopravvivenza: il riflesso di suzione, il grasping, etc., ma accanto a questi pochi istinti figurano molti comportamenti appresi che maturano lentamente dopo la nascita e riguardano non soltanto i fattori cognitivi ma anche quelli emotivi. Grazie agli studi di neuroimaging è stato possibile dimostrare che lo sviluppo del cervello non arriva a termine prima del 18° anno di vita, alcuni sostengono fino al 20-21°. Da tempo sappiamo che alcune strutture, per esempio il corpo calloso, un complesso fascio di fibre che permette ai due emisferi cerebrali di comunicare tra loro, matura non prima del 13-14° anno di vita, quindi l'unità funzionale del cervello, l'emisfero destro che è un po' più emotivo e il sinistro che è decisamente più cognitivo, è un fenomeno tardivo. Sappiamo che i centri del linguaggio hanno una loro maturazione che permette, dal secondo anno e mezzo al 4° anno, l'esplosione nominativa (periodo in cui l'acquisizione di nuovi vocaboli aumenta enormemente: si possono imparare 7-9 parole al giorno), e allo stesso modo le strutture del lobo frontale maturano con notevole lentezza. In un adolescente, per esempio, queste strutture sono ancora immature, nel senso che le connessioni delle fibre nervose non sono ancora mielinizzate, non sono cioè rivestite di quel "manicotto" isolante, la mielina, che consente l'autonomia funzionale ai neuroni. I maschi sono più tardivi nel processo di maturazione, addirittura di un paio di anni rispetto alle femmine. Siamo una specie in cui la corteccia frontale, che esercita un ruolo fondamentale sulle condotte sociali, si sviluppa lentamente e tardivamente, arrivando a completa maturazione attorno al 20° anno di età, anche se non ci dobbiamo dimenticare delle fortissime differenze individuali. In linea di massima notiamo che negli adolescenti c'è una maggiore irruenza, una minore capacità di controllo, e così via, che deriva da una scarsa maturazione della corteccia frontale (oltre che dagli ormoni). Non sappiamo dire se in altre epoche, quando la cultura era diversa e il processo di responsabilizzazione era più precoce, il cervello non ricevesse un impulso a maturare prima, perché lo sviluppo subisce anche l'influenza dell'ambiente in cui avviene. Allo stesso modo non possiamo sapere se non sia un po' un circolo vizioso che una cultura in cui i giovani hanno una adolescenza più lunga, causata da tanti motivi, in cui la scuola dura più a lungo, in cui il processo di responsabilizzazione è in linea di massima protratto nel tempo, non abbia anche influito sui processi di maturazione cerebrale. Ad ogni modo, il cervello sociale risente fortemente dell'ambiente in cui siamo immessi. Esso subisce l'influenza di una serie di variabili le quali alterano la sua struttura e le sue funzioni; i geni forniscono le informazioni, ma i geni si esprimono in un ambiente particolare che è sì quello degli altri geni, ma anche dell’ambiente di vita. È interessante notare, oltretutto, quanto in realtà tendiamo ad essere più empatici nei confronti di qualcosa o qualcuno a noi familiare. In un esperimento recente, ad esempio, alcuni partecipanti sono stati messi in una macchina per la risonanza magnetica funzionale, poi sono state mostrate loro una serie di "X" e "O" su uno schermo. Con la X si indicava che vi era una possibilità del 17% di avere una leggera scossa elettrica attraverso la caviglia, mentre con la O si era al sicuro (per il momento). Le scansioni del cervello dei partecipanti hanno mostrato che, quando viene rappresentata la possibilità che si sta per ricevere uno shock, le parti del cervello coinvolte nella risposta alla minaccia diventano più attive. E fino a qui, tutto abbastanza prevedibile. Ma se io sto per prendere una scossa e un mio amico assiste, che cosa capita? Ebbene, scansionando anche il cervello del mio amico che non rischia la scossa, si vedrà la stessa identica reazione di chi come me, la scossa sta per riceverla. I ricercatori hanno notato che l'attività cerebrale delle persone era quasi identica sia nel momento prima di ricevere la scossa, che nel momento prima che un loro amico stesse per riceverla. Ma la vera scoperta è stata quando i due amici durante la prova si sono tenuti per mano. L'attività nelle regioni di risposta alle minacce di entrambe le persone è risultata minima. Affrontare una minaccia tenendosi per mano era considerata quindi meno pericolosa. Uno degli autori dello studio, James Coan, ha spiegato che «La correlazione tra me e l'amico è molto simile. La scoperta dimostra la notevole capacità del nostro cervello di modellarsi per essere più simile a chi ci è vicino. La gente vicino a noi diventa una parte di noi stessi, e non è solo una metafora, ma una cosa che avviene davvero; sentiamo il pericolo quando un nostro amico è in pericolo. Questo però non avviene quando uno sconosciuto è in pericolo». Pertanto, a meno che non vi sia una lesione accertata al cervello, l'empatia è una questione evolutiva e di sviluppo cerebrale. Essa non è che una marcia in più del nostro cervello che otteniamo tramite l'evoluzione nel tempo, ma anche e soprattutto attraverso la nostra esperienza. Provare empatia nei confronti di chi amiamo è quasi banale, mentre nei confronti di un estraneo è certamente un passo in più lungo la scala evolutiva, perché ciò costituisce l'abbattimento di quella sorta di barriere emotive costruite dai nostri legami affettivi. E se volessimo fare ancora un ulteriore passo in avanti ci ritroveremmo a varcare un altro confine, quello che poniamo tra la nostra specie ed una altra. Evolvendoci di questo passo riusciremmo così ad accorgerci del dolore che l'essere umano infligge all'ambiente che degrada e deturpa, agli animali che mangia e che rinchiude in anguste gabbie, e anche ai suoi simili. È affascinante constatare che gli aspetti fondamentali di ciò che ci rende umani, si verifichino proprio lì, nel profondo della nostra mente. E forse è proprio questo il punto. Forse il nostro scopo, in questa vita, su questo pianeta, è agire in modo da sentirci semplicemente umani. Chissà. Uno dei metodi di uccisione del bestiame utilizzati nei macelli è la pistola a proiettile captivo. Essa è provvista di una punta di ferro di 6 cm che penetrando nel cranio provoca un rapido stordimento, ma senza uccidere l'animale. Il trattamento più o meno dignitoso dell'animale all'interno dell'allevamento, poi, ha poca importanza se la sorte è comunque la stessa...non trovate? foto: People for the Ethical Treatment of Animals (PETA) Il disboscamento illegale sta minacciando sempre più l'Amazzonia. Una pratica che mette in pericolo l'ambiente e le popolazioni locali. Ma gli indigeni non stanno a guardare. In Brasile la tribù dei Ka'apor ha iniziato una dura lotta contro i taglialegna illegali che minacciano la loro patria. La violenza non dovrebbe mai essere la risposta definitiva ai soprusi. Ma gli indigeni dell'Amazzonia non ricevono nessun aiuto concreto e ogni giorno vedono scomparire una parte della loro patria a causa del desiderio di profitto e di azioni illegali che non vengono fermate dalle autorità. Le immagini sono state scattate il 7 agosto 2014 nel nord-est dello Stato di Maranhao, all'interno del bacino amazzonico. I Ka'apor hanno raccontato al fotografo che i taglialegna hanno invaso il villaggio di Gurupi lo scorso novembre, hanno malmenato con violenza gli anziani, sparato agli animali e spaventato i bambini. A febbraio i taglialegna hanno attaccato tre guerrieri indigeni durante una delle loro operazione e hanno ferito un membro della tribù quasi a morte. Le autorità federali hanno preso nota della situazione di conflitto, ma non hanno agito. NOTA BENE: il taglio di alberi per legname, legale e illegale, è tra le cause minori di disboscamento dell'Amazzonia, in quanto costituisce solo il 3% del totale. La causa principale è invece l'allevamento intensivo di bovini, il quale è responsabile di circa il 60% del disboscamento di quest'area. Fonte: greenme.it Foto: reuters.com (https://goo.gl/RyLm7t) Negli ultimi 40 anni più del 30% della foresta pluviale del Borneo è stata distrutta dal disboscamento e dalle piantagioni di palme da olio. Su quest'isola convivono circa 15000 specie di piante da fiore, 3000 specie di alberi, oltre a 221 specie di mammiferi terrestri e 420 di uccelli. In pochi decenni l'essere umano ha devastato un inestimabile tesoro, una meraviglia della natura vecchia 140 milioni di anni, una delle più antiche foreste pluviali di tutto il mondo. Imperturbato e indifferente nei confronti delle conseguenze delle proprie azioni, l'uomo mette a repentaglio la vita di migliaia e migliaia di esseri viventi, tra cui specie endemiche che non esistono in nessun altro luogo al di fuori di quest'isola e che, di questo passo, tra breve non esisteranno nemmeno più sulla faccia del pianeta. Abbiamo avviato una crociata in nome del denaro e del sacrosanto lavoro per cui ogni azione è lecita...anche l'autodistruzione. Fonte: Mongabay, PLOS ONE Bibliografia Goldberg E. (2004), L'anima del cervello. Lobi frontali, mente e civiltà. UTET Università Goldberg E. (2005), Il paradosso della saggezza. Ponte delle Grazie Baron-Cohen S. (2012), La scienza del male. Cortina Raffaello Giedd J.N. (2004), Adolescent brain development: vulnerabilities and opportunities. In Annals New York Academy of Science, 1021, 77-85.
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AutoreOmar Tomaino (Torino, 1986), fotografo, studioso Gli articoli più letti
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