"Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno, ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi." Sono trascorsi ormai sette anni da quando iniziai a scrivere il mio primo libro Alternativa. Ricordo ancora la prima edizione, molto scarna, non arrivava alle 80 pagine, ed era rilegata con una striscia di stoffa. Circa un anno fa Alternativa è giunto alla quarta ed ultima edizione. Un libro decisamente diverso dalle edizioni precedenti. Un libro completo, ricco di riferimenti e spunti di riflessione. Un libro che ho scritto e riscritto nella speranza di risvegliare una consapevolezza spesso glissata dalle abitudini, dalle tradizioni, dalle religioni. Una consapevolezza sui nostri consumi e le loro conseguenze sul pianeta che abitiamo, l'unico di cui possiamo disporre, e sulla biodiversità che lo popola, che comprende milioni di specie di esseri viventi, la maggiorparte delle quali non è ancora nemmeno stata scoperta. A sostenere la causa vi è un secondo libro, che ho intitolato A tavola con Ippocrate, un manuale di cucina corredato da molteplici curiosità sul cibo. In entrambi i casi noterete che di certo non mancano valide alternative per costruire un mondo migliore attraverso un consumo consapevole delle risorse. Credo che oggi più che mai ci sia un urgente bisogno di divulgare informazioni utili per contribuire alla salvaguardia dell'ambiente che ci circonda, e quindi a migliorare la nostra stessa esistenza. Per questo ho deciso di rendere disponibile a titolo gratuito tutto ciò che ho appreso ed applicato in questi anni di ricerca personale. Cliccate sui bottoni qui di seguito per scaricare la versione e-book di Alternativa e A tavola con Ippocrate. Buona lettura!
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Alternativa, Considerazioni su un mondo cieco, disponibile dal 30 aprile 2018. "La sacralità della vita, religiosamente inviolabile, è spesso imposta in società digiune di basilari nozioni evoluzionistiche. La vita non è sacra. La vita, più semplicemente, è frutto di errori di copiatura nella trascrizione genetica, una condizione necessaria affinché l’evoluzione e l’adattamento degli organismi all’ambiente circostante possano aver luogo. La vita, pertanto, è un errore. Probabilmente il più bello che la natura potesse mai commettere. Un errore che, di tanto in tanto, cambia le carte il tavola. Ed è proprio questo, il cambiamento, a rappresentare l’unica certezza della vita. Tutto, prima o poi, è destinato a cambiare, e il modo in cui ognuno di noi reagisce al cambiamento ha l’immenso potere di determinare le sorti del domani."
ALTERNATIVA è stampato interamente in carta riciclata certificata FSC®. La copertina del volume è stampata su carta Kiwi FSC®, una carta realizzata con scarti della lavorazione industriale del kiwi.
Nell’universo le stelle sono spesso fonte di vita. Esse hanno origine da nubi di gas che volteggiano inesorabili nell’immensità dello spazio cosmico. Ma nel caso la massa di queste nubi fosse minore del 10% di quella del Sole, allora molto probabilmente si assisterebbe ad un collasso da cui avrà luogo una nana bruna, una stella “mancata”, che difficilmente ospiterà un pianeta attorno a sé. La maggiorparte delle stelle nasce all'interno dei dischi galattici dove vi è una maggiore concentrazione di gas e polveri. Ma nonostante ciò solo l’1% delle nubi di gas presenti in queste regioni darà origine ad una stella, il che induce a concludere quanto questo sistema di formazione stellare sia in realtà poco efficiente. A volte si pensa allo spazio cosmico come un luogo placido e imperturbabile. Tutt’altro. Banalmente, se ci avvicinassimo troppo ad una stella finiremmo arrostiti; se ci allontanassimo, congelati. Se inoltre non ci fosse un’atmosfera a proteggerci moriremmo all’istante per via delle radiazioni cosmiche provenienti dallo spazio circostante, comprese quelle del vento stellare dell’astro attorno cui il nostro pianeta orbita. Al di fuori di quel microscopico granello di detriti cosmici originati dalla formazione di una nebulosa solare, che comunemente chiamiamo Terra, la temperatura media del cosmo è prossima allo zero assoluto (circa -273°C), ed è di circa 3 K (-270°C). Ma là fuori esistono posti anche più freddi, come la nebulosa Boomerang, dove la temperatura tocca 1 K (-272°C). Che dire della Terra, invece? Terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, possono devastare città e villaggi in una manciata di secondi. Alluvioni, tornado, uragani, non sono da meno. A complicare ulteriormente le cose vi è il fatto che non ci è possibile vivere sui due terzi della superficie terrestre. E riguardo gli esseri umani? Ad esempio, per quanto possano sembrarci strumenti portentosi, i nostri occhi non ci permettono di vedere la realtà così com’è. La realtà, infatti, è molto più ricca di particolari di quanto ci appare. Se consideriamo l’ampiezza dello spettro elettromagnetico non potremmo che considerarci quasi cechi: ciò che il nostro apparato visivo ci permette di vedere è una porzione che costituisce meno di un milionesimo di miliardesimo dell’intero spettro elettromagnetico. Ma, dopotutto, che importa: il cervello rimane comunque il nostro “pezzo forte”. E invece no. Se lo analizzassimo bene ci accorgeremmo che non è tanto più speciale di quello di una lumaca. Il cervello della lumaca conta soltanto 10.000 cellule nervose, tuttavia è già molto complesso. Naturalmente esistono differenze col cervello umano, ma non sono così profonde come si è portati a credere. Per lo meno in senso chimico e fisiologico i due cervelli funzionano in modo assai simile, utilizzando gli stessi neurotrasmettitori, come la serotonina, la noradrenalina, l’acetilcolina. La natura ha impiegato un tempo molto lungo per perfezionare la prima cellula nervosa, ma una volta trovato il sistema adatto lo ha mantenuto nell'evoluzione delle specie e dei cervelli. Si tratta di un esempio di economicità e di razionalità. Così l’acetilcolina, per fare solo un esempio, è rimasta tale e quale nel cervello del polpo, in quello del pesce elettrico, in quello della lumaca e via via fino all’uomo. Le differenze consistono in ciò che gli americani chiamano genericamente “wiring”, cioè nell’organizzazione e nel sistema di comunicazione (più complesso e con unità più numerose). La differenza, in parole povere, è come quella esistente tra una calcolatrice da tavolo e un computer molto potente. Vi è poi una sorta di paradosso che coinvolge i geni. Molte delle malattie che affliggono l’uomo sono di natura genetica. Alcune di queste sono predestinate a manifestarsi fin da prima del concepimento, altre in periodi successivi, altre ancora in età avanzata. Il paradosso risiede nel fatto che l’evoluzione non avrebbe avuto luogo se non si fossero verificate alterazioni genetiche. Il problema è che a volte le mutazioni in questione possono evolvere in vere e proprie anomalie, come nel caso delle malattie nell’essere umano. L’umana inconsapevolezza risiede nel fatto che la nostra vita è così breve che non ci rendiamo conto di quanto il pianeta su cui viviamo sia in realtà un organismo dinamico e in continua evoluzione. La natura cambia, evolve, così come gli esseri viventi di cui ne fanno parte. Ad esempio, non avremmo mai conosciuto l’orso bianco se il gene che controlla il colore del pelo della sua pelliccia non fosse mutato. Pare infatti che i primi esemplari di orso polare fossero simili ai Grizzly che, generazione dopo generazione, videro la propria pelliccia schiarirsi fino a diventare completamente bianca. Questo è un chiaro esempio di evoluzione per selezione naturale. Probabilmente non ci saremmo neanche evoluti, o ci saremmo evoluti in modo diverso, se non l’avesse fatto anche la terra su cui camminiamo. Circa 4,5 milioni di anni fa le forze tettoniche che agiscono sui continenti diedero luogo a quello che oggi conosciamo come istmo di Panama. Prima della sua formazione le correnti oceaniche potevano scorrere dall’oceano atlantico all’oceano pacifico. La chiusura di questo canale provocò così un mutamento epocale nel ciclo dei flussi oceanici con importanti conseguenze climatiche su scala globale. Il ridente e rigoglioso habitat del Corno d’Africa in cui vivevano i nostri antenati diventò progressivamente più arido fino ad evolvere in savana. Questa condizione li spinse ad effettuare spostamenti alla ricerca di cibo. Contemporaneamente la linea umana iniziò a distaccarsi da quella degli scimpanzé dando luogo ad una nuova specie, l’ardipiteco, nostro diretto antenato. Ma anche la natura, per quanto straordinaria e affascinante possa sembrare, commette errori. Ad ogni modo, se “Dio creò l’uomo a sua immagine”, allora perché lo ha creato così “ordinario” e imperfetto e, oltretutto, perché avrebbe dovuto creare un ambiente così ostile come l’universo dove permettergli di vivere? A giudicare dalle apparenze, si direbbe più che questo universo sia stato creato su misura per i Tardigradi, minuscoli insetti capaci di resistere in ambienti a noi ostili. Essi possono resistere 10 anni senza acqua, sopravvivere a temperature prossime allo zero assoluto, come -272°C, e a oltre 150°C, e risultano essere mille volte più resistenti alle radiazioni ionizzanti (quali ad esempio raggi X, raggi gamma e raggi ultravioletti ad alta frequenza) rispetto a qualsiasi altro animale. Date inoltre ad un esserino di questi una piccola goccia d’acqua per reidratarsi e lui ricomporrà le parti del suo corpo danneggiate dalle radiazioni ionizzanti a cui l’avete sottoposto, dopodiché riprenderà a vivere come se nulla fosse successo. I Tardigradi sono sopravvissuti a tutte e 5 le estinzioni di massa. Essi popolano la Terra da circa mezzo miliardo di anni. Una vera e propria forza della natura racchiusa mediamente in meno di un millimetro di insetto. Insomma, se osservassimo con più attenzione il mondo che ci circonda non potremmo certamente considerarci creature privilegiate. In realtà non siamo nulla di speciale e tantomeno nulla di essenziale per l’esistenza della vita stessa. Ma arriviamo alla fine del discorso prima di demoralizzarci. Vi sono ulteriori interessanti aspetti che la scienza indaga suggerendo quanto la natura abbia in realtà plasmato l’uomo attraverso un’evoluzione. Ad esempio, è molto probabile che un tempo i nostri antenati fossero in grado di percepire il campo magnetico terrestre per via di alcuni depositi di magnetite (il minerale con le più intense proprietà magnetiche esistente in natura) all’interno del loro cranio, più precisamente nell’osso etmoide, situato tra gli occhi e il naso. Pare anche che i nostri antenati fossero provvisti del gene che codifica per l’enzima L-gulonolattone ossidasi, il che rendeva loro possibile sintetizzare la vitamina C in modo autonomo. Nel tempo questo gene ha subìto numerose mutazioni e ha smesso di funzionare. Lo stesso vale per la magnetite nell’osso etmoide: l’elemento persiste tuttora nell’uomo moderno, ma ha perso del tutto la sua funzionalità. L’appendice vermiforme, quella parte dell’intestino sempre più soggetta ad infiammazioni, anche gravi, ci suggerisce quanto i nostri antichi predecessori fossero in realtà erbivori e di quanto il mutamento di dieta e abitudini abbiano modificato nel tempo la morfologia e la funzionalità dell’appendice stessa. Nel nostro occhio la plica semilunare presente a ridosso della caruncola lacrimale è il residuo della membrana nittitante, peculiare in vari rettili, uccelli e squali. Il coccige, invece, è il residuo della coda. Tutti questi resti vestigiali evidenziano quanto l’essere umano non sia una creatura a se stante, bensì il risultato di un’evoluzione durata milioni di anni. Non ci sarebbe quindi alcuna ragione di pensare che l’uomo sia stato creato appositamente per volontà divina. Per le azioni che compiamo ci sentiamo spesso al centro di tutto. Ma, come già accennato in precedenza, a ben pensarci nessun uomo su questa Terra, in realtà, è strettamente necessario all’esistenza stessa. La scienza, inoltre, apre gli occhi sulla natura e riconosce che non sempre ciò che esiste deve avere anche una causa, come dopotutto dimostra il principio di indeterminazione di Heisenberg. Il pensiero scientifico svela oltretutto il suo lato parsimonioso attraverso il rasoio di Occam (che tra l’altro prende il nome da un frate francescano inglese), col quale comprende quanto sia superfluo introdurre un dio per spiegare l’esistenza dell’universo. Forse il modo migliore di apprezzare la nostra esistenza è quello di contemplarne l’effimera e fievole bellezza. Rimango dell’opinione che l’umiltà rappresenti l’unico punto d’incontro tra la conoscenza e l’ignoto. Ad ogni modo, considerando anche solo il breve excursus di constatazioni elencate finora, penso che la domanda da porsi non sia tanto se “esiste Dio?”, ma piuttosto “quante probabilità ci sono che Dio esista?”. Per me sono prossime allo zero. Ma, chissà, potrei anche sbagliarmi. Bibliografia e riferimenti
«Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», ovvero l'etica della reciprocità, o regola d'oro, probabilmente l'unica grande regola che permetterebbe a qualunque cultura, o civiltà, presente su questo pianeta di vivere in armonia con il prossimo; l'unica regola che basterebbe a mettere d'accordo tutti. Eppure sembra che siamo ancora lontani dal poter apprezzare e soprattutto saper applicare tale semplicità di vivere. Lo siamo ancor di più dall'applicarla al di là della nostra specie, che dopotutto è soltanto una tra altre 9 milioni di specie viventi che finora sappiamo popolare la Terra. Il nostro straordinario e inimitabile pianeta ospita la vita da circa 4 miliardi di anni. Un tempo incredibilmente lungo se lo compariamo alla manciata di milioni di anni durante cui l'uomo si è evoluto. E forse è proprio qui, nella nostra evoluzione, che troviamo la chiave per comprendere il motivo per cui non siamo in grado di esercitare la famosa e semplicissima regola d'oro. Forse, infatti, è semplicemente ancora troppo presto perché ciò accada. In un gruppo intelligente in cui si esperiscono delle relazioni (tecnicamente "bonding", cioè legame) e in cui i legami sono estremamente importanti come per l’uomo, l’aspetto delle interazioni sociali deve aver avuto anche una valenza evoluzionistica. In qualche modo i legami sociali sono un’estensione di quel rapporto tra madre e figlio su cui tanti terapeuti hanno focalizzato l’attenzione. Quando la mamma, o chi per lei, ci parla lentamente, da vicino, producendo delle parole semplici e scandendo i suoni in maniera molto chiara, con il movimento delle labbra lento e ampio, ci aiuta a imitare, a comprendere, ad articolare quei suoni, così come accade per altri movimenti che vengono rispecchiati. Non per nulla i bambini sono dei grandi imitatori e riproducono ciò che vedono accadere intorno a loro. Questo accade grazie all'attivazione di un gruppo di neuroni, i cosiddetti neuroni specchio, presenti in un'area della corteccia frontale del nostro cervello, i quali portano il soggetto ad entrare in risonanza. Naturalmente ciò non deve ridursi all'idea di un meccanicismo cerebrale. In realtà ci sono aree dell'encefalo ben delimitate, che fanno parte del lobo frontale e in qualche modo sono legate al fatto che noi rispecchiamo i movimenti altrui, sia per quelle funzioni ritenute banali, quali i movimenti semplici, ma anche per funzioni più complesse, come quelle alla base dell'empatia. Un esperimento condotto a Roma dal gruppo di Salvatore Aglioti e Alessio Avenati ha mostrato che, quando noi assistiamo ad un'azione che apparentemente ci sembra nociva, come guardare uno sperimentatore che punge con uno spillo la mano di qualcuno, nel nostro cervello si attivano le aree che controllano gli stessi muscoli che vengono lesi dallo sperimentatore. Questo esperimento mostra che esiste un collegamento diretto tra la persona che viene danneggiata e quella che assiste alla scena, a dimostrazione della forza che possiede il meccanismo di risonanza. L'altro lato della medaglia, l'aspetto negativo, è rappresentato dal caso delle persone sadiche che godono nel veder fare del male anche se, in linea di massima, la nostra specie tende ad assicurare dei benefici agli altri, altrimenti si sarebbe autodistrutta da tempo. L'umanità ha delle forme di empatia e di razionalità che portano le persone ad assistere, ad aiutare, a favorire più che a distruggere, come dimostrano anche alcune professioni, come quella di psicoterapeuta, che agiscono attraverso questi meccanismi di risonanza cerebrale. Uno degli aspetti importanti alla base del cervello sociale è quello della comunicazione: nelle relazioni sociali dobbiamo esprimere delle emozioni e cogliere il significato delle emozioni altrui. È ormai certo che questo aspetto abbia delle valenze interculturali in quanto in tutto il mondo alcune emozioni di base, come la rabbia, la paura, la gioia, etc., si esprimono e si riconoscono in una mimica facciale tipica, studiata già dai tempi di Darwin quando il campo delle espressioni facciali e del loro significato avevano già ricevuto un’alta considerazione. Tutte le ricerche effettuate finora in campo neuroscientifico, senza escludere importanti ricerche anche in ambito etologico, come quelle descritte da Konrad Lorenz nel suo L'anello di re Salomone, per esempio, dimostrano che vi sono delle tappe dello sviluppo nelle quali si manifestano sia dei meccanismi tipici della specie, sia dei meccanismi che invece vengono introiettati attraverso l’esperienza. Schematizzando si può graficamente tracciare una scala: se noi consideriamo lo sviluppo dell’attaccamento infantile notiamo che segue le tappe della maturazione cerebrale del neonato il quale manifesta tutto quello che può in base alla maturazione del suo sistema nervoso. La stessa cosa avviene anche dal punto di vista motorio, ma si nota subito che il neonato possiede dei "prerequisiti", per esempio quelli immediati della ricerca del seno, i meccanismi della suzione, quelli della mano-bocca, e così via. In seguito, la comparsa del sorriso preferenziale diviene un importante meccanismo nel generare attaccamento, la vocalizzazione, lo scambio di occhiate e la capacità di riconoscere selettivamente la voce materna già alla nascita. Poi ci sono dei meccanismi che si manifestano più tardi. Dal quarto al sesto mese in poi si verifica la formazione del legame specifico, la paura degli estranei, la ricerca spontanea, la comparsa dell'ansia legata alla separazione e poi, con la deambulazione, la comparsa dei meccanismi di autonomia con l'esplorazione. In questa fase si nota un certo bipolarismo tra le necessità dell'attaccamento, che avvertiremo in tutto l'arco della nostra vita, e la necessità di autonomia che si sviluppa anche attraverso l'uso dell'oggetto transizionale. Riassumendo abbiamo detto che esiste un cervello sociale legato ad alcune aree cerebrali che svolgono funzioni varie: la giunzione temporo-parietale, ad esempio, si attiva quando pensiamo a "stati mentali": se io penso a quale possa essere lo stato mentale di chi mi guarda posso immedesimarmi nel pensiero degli altri. Questo è un importantissimo meccanismo, alla base delle teorie della mente, che matura progressivamente nel bambino nel momento in cui comincia a pensare che anche un altro bambino possa avere alcuni dei suoi pensieri, o possa sentire male se lui gli fa male, e così via, quando si "mette" nella mente dell'altro. Un'altra struttura rilevante per il cervello sociale è il solco temporale posteriore che è importante nella comprensione delle espressioni facciali altrui e che, se danneggiato, porta alla prosopagnosia, cioè all’incapacità di riconoscere correttamente i volti delle persone o comprendere che tipo di emozioni esprimono le loro facce. Il cervello è una collezione di aree che entrano ovviamente in sintonia tra loro. Ognuna di queste aree possiede una propria specificità e produce delle informazioni che in seguito dovranno passare attraverso una struttura centralizzata avente il compito di integrarle, coordinarle e fornire una lettura. Grazie alle tecniche sempre più evolute di Brain Imaging il cervello viene mappato sempre più dettagliatamente. Esiste una vera e propria geografia cerebrale anche per le emozioni, i comportamenti sociali, l'empatia, la capacità di riconoscere le somiglianze o le differenze, le dinamiche che riguardano la sfera intima e così via. Queste tecniche ci hanno consentito di mappare le funzioni mentali, che come è ovvio sono estremamente individuali, e di localizzare con maggiore precisione alcune di queste funzioni. Ciò non vuol dire un ritorno al rigido localizzazionismo delle mappe dei frenologi dell' '800, però evidenzia che nel momento in cui esperiamo degli stati mentali che riguardano anche la socialità il nostro cervello entra in funzione. Questi processi maturano con grande lentezza nella nostra specie. Il genere umano matura lentamente e tardivamente e ciò costituisce un grande vantaggio rispetto ad altre specie animali. Le specie precoci nascono con un pacchetto di informazioni innato, programmi piuttosto rigidi, che permette loro di adattarsi all'ambiente. La nostra specie ha seguito un'altra strategia evolutiva che è quella di nascere con pochi istinti, quelli necessari per la sopravvivenza: il riflesso di suzione, il grasping, etc., ma accanto a questi pochi istinti figurano molti comportamenti appresi che maturano lentamente dopo la nascita e riguardano non soltanto i fattori cognitivi ma anche quelli emotivi. Grazie agli studi di neuroimaging è stato possibile dimostrare che lo sviluppo del cervello non arriva a termine prima del 18° anno di vita, alcuni sostengono fino al 20-21°. Da tempo sappiamo che alcune strutture, per esempio il corpo calloso, un complesso fascio di fibre che permette ai due emisferi cerebrali di comunicare tra loro, matura non prima del 13-14° anno di vita, quindi l'unità funzionale del cervello, l'emisfero destro che è un po' più emotivo e il sinistro che è decisamente più cognitivo, è un fenomeno tardivo. Sappiamo che i centri del linguaggio hanno una loro maturazione che permette, dal secondo anno e mezzo al 4° anno, l'esplosione nominativa (periodo in cui l'acquisizione di nuovi vocaboli aumenta enormemente: si possono imparare 7-9 parole al giorno), e allo stesso modo le strutture del lobo frontale maturano con notevole lentezza. In un adolescente, per esempio, queste strutture sono ancora immature, nel senso che le connessioni delle fibre nervose non sono ancora mielinizzate, non sono cioè rivestite di quel "manicotto" isolante, la mielina, che consente l'autonomia funzionale ai neuroni. I maschi sono più tardivi nel processo di maturazione, addirittura di un paio di anni rispetto alle femmine. Siamo una specie in cui la corteccia frontale, che esercita un ruolo fondamentale sulle condotte sociali, si sviluppa lentamente e tardivamente, arrivando a completa maturazione attorno al 20° anno di età, anche se non ci dobbiamo dimenticare delle fortissime differenze individuali. In linea di massima notiamo che negli adolescenti c'è una maggiore irruenza, una minore capacità di controllo, e così via, che deriva da una scarsa maturazione della corteccia frontale (oltre che dagli ormoni). Non sappiamo dire se in altre epoche, quando la cultura era diversa e il processo di responsabilizzazione era più precoce, il cervello non ricevesse un impulso a maturare prima, perché lo sviluppo subisce anche l'influenza dell'ambiente in cui avviene. Allo stesso modo non possiamo sapere se non sia un po' un circolo vizioso che una cultura in cui i giovani hanno una adolescenza più lunga, causata da tanti motivi, in cui la scuola dura più a lungo, in cui il processo di responsabilizzazione è in linea di massima protratto nel tempo, non abbia anche influito sui processi di maturazione cerebrale. Ad ogni modo, il cervello sociale risente fortemente dell'ambiente in cui siamo immessi. Esso subisce l'influenza di una serie di variabili le quali alterano la sua struttura e le sue funzioni; i geni forniscono le informazioni, ma i geni si esprimono in un ambiente particolare che è sì quello degli altri geni, ma anche dell’ambiente di vita. È interessante notare, oltretutto, quanto in realtà tendiamo ad essere più empatici nei confronti di qualcosa o qualcuno a noi familiare. In un esperimento recente, ad esempio, alcuni partecipanti sono stati messi in una macchina per la risonanza magnetica funzionale, poi sono state mostrate loro una serie di "X" e "O" su uno schermo. Con la X si indicava che vi era una possibilità del 17% di avere una leggera scossa elettrica attraverso la caviglia, mentre con la O si era al sicuro (per il momento). Le scansioni del cervello dei partecipanti hanno mostrato che, quando viene rappresentata la possibilità che si sta per ricevere uno shock, le parti del cervello coinvolte nella risposta alla minaccia diventano più attive. E fino a qui, tutto abbastanza prevedibile. Ma se io sto per prendere una scossa e un mio amico assiste, che cosa capita? Ebbene, scansionando anche il cervello del mio amico che non rischia la scossa, si vedrà la stessa identica reazione di chi come me, la scossa sta per riceverla. I ricercatori hanno notato che l'attività cerebrale delle persone era quasi identica sia nel momento prima di ricevere la scossa, che nel momento prima che un loro amico stesse per riceverla. Ma la vera scoperta è stata quando i due amici durante la prova si sono tenuti per mano. L'attività nelle regioni di risposta alle minacce di entrambe le persone è risultata minima. Affrontare una minaccia tenendosi per mano era considerata quindi meno pericolosa. Uno degli autori dello studio, James Coan, ha spiegato che «La correlazione tra me e l'amico è molto simile. La scoperta dimostra la notevole capacità del nostro cervello di modellarsi per essere più simile a chi ci è vicino. La gente vicino a noi diventa una parte di noi stessi, e non è solo una metafora, ma una cosa che avviene davvero; sentiamo il pericolo quando un nostro amico è in pericolo. Questo però non avviene quando uno sconosciuto è in pericolo». Pertanto, a meno che non vi sia una lesione accertata al cervello, l'empatia è una questione evolutiva e di sviluppo cerebrale. Essa non è che una marcia in più del nostro cervello che otteniamo tramite l'evoluzione nel tempo, ma anche e soprattutto attraverso la nostra esperienza. Provare empatia nei confronti di chi amiamo è quasi banale, mentre nei confronti di un estraneo è certamente un passo in più lungo la scala evolutiva, perché ciò costituisce l'abbattimento di quella sorta di barriere emotive costruite dai nostri legami affettivi. E se volessimo fare ancora un ulteriore passo in avanti ci ritroveremmo a varcare un altro confine, quello che poniamo tra la nostra specie ed una altra. Evolvendoci di questo passo riusciremmo così ad accorgerci del dolore che l'essere umano infligge all'ambiente che degrada e deturpa, agli animali che mangia e che rinchiude in anguste gabbie, e anche ai suoi simili. È affascinante constatare che gli aspetti fondamentali di ciò che ci rende umani, si verifichino proprio lì, nel profondo della nostra mente. E forse è proprio questo il punto. Forse il nostro scopo, in questa vita, su questo pianeta, è agire in modo da sentirci semplicemente umani. Chissà. Uno dei metodi di uccisione del bestiame utilizzati nei macelli è la pistola a proiettile captivo. Essa è provvista di una punta di ferro di 6 cm che penetrando nel cranio provoca un rapido stordimento, ma senza uccidere l'animale. Il trattamento più o meno dignitoso dell'animale all'interno dell'allevamento, poi, ha poca importanza se la sorte è comunque la stessa...non trovate? foto: People for the Ethical Treatment of Animals (PETA) Il disboscamento illegale sta minacciando sempre più l'Amazzonia. Una pratica che mette in pericolo l'ambiente e le popolazioni locali. Ma gli indigeni non stanno a guardare. In Brasile la tribù dei Ka'apor ha iniziato una dura lotta contro i taglialegna illegali che minacciano la loro patria. La violenza non dovrebbe mai essere la risposta definitiva ai soprusi. Ma gli indigeni dell'Amazzonia non ricevono nessun aiuto concreto e ogni giorno vedono scomparire una parte della loro patria a causa del desiderio di profitto e di azioni illegali che non vengono fermate dalle autorità . Le immagini sono state scattate il 7 agosto 2014 nel nord-est dello Stato di Maranhao, all'interno del bacino amazzonico. I Ka'apor hanno raccontato al fotografo che i taglialegna hanno invaso il villaggio di Gurupi lo scorso novembre, hanno malmenato con violenza gli anziani, sparato agli animali e spaventato i bambini. A febbraio i taglialegna hanno attaccato tre guerrieri indigeni durante una delle loro operazione e hanno ferito un membro della tribù quasi a morte. Le autorità federali hanno preso nota della situazione di conflitto, ma non hanno agito. NOTA BENE: il taglio di alberi per legname, legale e illegale, è tra le cause minori di disboscamento dell'Amazzonia, in quanto costituisce solo il 3% del totale. La causa principale è invece l'allevamento intensivo di bovini, il quale è responsabile di circa il 60% del disboscamento di quest'area. Fonte: greenme.it Foto: reuters.com (https://goo.gl/RyLm7t) Negli ultimi 40 anni più del 30% della foresta pluviale del Borneo è stata distrutta dal disboscamento e dalle piantagioni di palme da olio. Su quest'isola convivono circa 15000 specie di piante da fiore, 3000 specie di alberi, oltre a 221 specie di mammiferi terrestri e 420 di uccelli. In pochi decenni l'essere umano ha devastato un inestimabile tesoro, una meraviglia della natura vecchia 140 milioni di anni, una delle più antiche foreste pluviali di tutto il mondo. Imperturbato e indifferente nei confronti delle conseguenze delle proprie azioni, l'uomo mette a repentaglio la vita di migliaia e migliaia di esseri viventi, tra cui specie endemiche che non esistono in nessun altro luogo al di fuori di quest'isola e che, di questo passo, tra breve non esisteranno nemmeno più sulla faccia del pianeta. Abbiamo avviato una crociata in nome del denaro e del sacrosanto lavoro per cui ogni azione è lecita...anche l'autodistruzione. Fonte: Mongabay, PLOS ONE Bibliografia Goldberg E. (2004), L'anima del cervello. Lobi frontali, mente e civiltà. UTET Università Goldberg E. (2005), Il paradosso della saggezza. Ponte delle Grazie Baron-Cohen S. (2012), La scienza del male. Cortina Raffaello Giedd J.N. (2004), Adolescent brain development: vulnerabilities and opportunities. In Annals New York Academy of Science, 1021, 77-85. 13,7 miliardi di anni fa nasceva l'Universo, un insieme di circa 170 miliardi di galassie: le più grandi di esse contengono migliaia di miliardi di stelle e possono avere un diametro di varie decine di centinaia di anni- luce (1 anno-luce = circa 9.461 miliardi di chilometri). Nella Via Lattea, la galassia di cui il nostro sistema solare fa parte, si possono trovare anche più di 200 miliardi di stelle e almeno 100 miliardi di pianeti. Ma pare che gran parte delle galassie che popolano l'Universo siano in realtà delle galassie nane, generalmente cento volte più piccole della Via Lattea e con al massimo qualche miliardo di stelle. Molte di esse orbitano come satelliti attorno ad una singola grande galassia: alcune ipotesi suggeriscono che attorno alla Via Lattea, per esempio, orbitino tra 300 e 500 galassie nane. E, anzi, pare che due di esse, la galassia nana ellittica del Cane Maggiore e la galassia nana ellittica del Sagittario, poste rispettivamente ad una distanza di 25.000 e 70.000 anni luce dalla Terra, siano addirittura in rotta di collisione con la Via Lattea. Eventi comunque tutt'altro che raro nel corso della storia dell'Universo, anche se sempre più sporadici, soprattutto per via della sua continua espansione. Oltre a queste interazioni minori, la Via Lattea si trovera, infine, a collidere con una galassia gigante, la galassia di Andromeda, la più grande e più vicina alla nostra, posta ora a più di 2,5 milioni di anni luce dalla Terra; ma per assistervi bisognerà attendere circa 4 miliardi di anni. Le galassie, che vediamo grazie alla luce dei loro miliardi di stelle, sono immerse in grandi quantità di materia oscura, una forma di materia che non emette radiazioni elettromagnetiche, ma comunque rilevabile attraverso metodi di misura basati sulle leggi della gravitazione. Non a caso, di tutto l'Universo, ciò che conosciamo costituisce circa il 4% del totale, che non rappresenta altro che la materia visibile delle stelle (0,5%) e del gas intergalattico (3,5%); il resto è materia oscura (23%) ed energia oscura (73%), una sorta di gravità inversa che ha preso il sopravvento sulla forza di gravità circa 6 miliardi di anni fa, e che permette quindi all'Universo di espandersi; secondo quanto riportato dai suoi scopritori, l'espansione dovuta alla presenza di questa energia oscura potrebbe addirittura causare una diminuzione della temperatura media dell'Universo, che al momento si aggira intorno ai 2,73 K (gradi Kelvin), cioè circa -270°C (un passo dallo zero assoluto, 0 K = -273,15°C), a tal punto da condurlo, in un futuro prossimo, a una sorta di glaciazione cosmica. Questo si verificherebbe nel caso in cui l'espansione continuerebbe ad accelerare; un piccolo modello di questo comportamento lo si può osservare a 5.000 anni luce da noi, nella Nebulosa Boomerang, il posto più freddo dell'Universo, dove la temperatura si aggira intorno a 1 K (-272°C), condizione favorita proprio dalla velocità con cui si espande, che è di circa 164 km/s. Facciamo ora un piccolo passo indietro e consideriamo quel 4% di spazio cosmico che conosciamo. Secondo le stime attuali il 99% della materia conosciuta dell'Universo è costituita da un particolare stato della materia, il plasma, una sorta di "gas" formato da elettroni liberi e da atomi che li hanno perduti (ioni). Questo gas ionizzato non solo rappresenta la materia che costituisce le stelle e le nebulose, ma è anche parte costituente dello spazio intergalattico, cioè lo spazio fisico tra le galassie. Questo spazio è rappresentato da distanze dell'ordine di milioni di parsec (1 parsec=3,26 anni luce) tra una galassia e l'altra, la cui densità si suppone sia inferiore a un atomo al metro cubo; uno spazio quasi vuoto, quindi, ma non del tutto! (ed è soprattutto per questo motivo che la temperatura media dell'Universo risulta così bassa) Insomma, non siamo altro che una parte infinitesima di un immensità inimmaginabile evoluta in un periodo di tempo inconcepibile dalla mente umana e da quella di qualsiasi altro essere vivente a noi conosciuto. Chiariamoci un po' le idee provando pertanto ad immaginare l'evoluzione dell'Universo traslata su una scala di riferimento ridotta, più a misura d'uomo. Per comprendere la nostra posizione temporale lungo questo articolato cammino, avvaliamoci quindi di un calendario cosmico. Il video che segue è tratto da Cosmos, un (bellissimo, a mio parere) documentario trasmesso nel 1980 e condotto da Carl Sagan, grande scienziato nonché grande divulgatore scientifico. clicca qui se non vedi il video qui sopra. Il calendario cosmico altro non è che la storia dell'Universo compressa in un singolo anno. Il 1 gennaio di questo particolare anno è la data in cui tutto ebbe inizio. Si dovrà attendere, però, il mese di maggio affinché la nostra galassia, la Via Lattea, prenda forma. Altri sistemi planetari appariranno poi nei mesi seguenti, tra giugno, luglio e agosto. Ma il nostro Sole e la nostra Terra non faranno la loro comparsa prima di metà settembre. La vita emergerà poco più tardi. Tutto ciò che riguarda l'uomo, invece, accadrà in una minutissima parte dell'ultimo giorno dell'anno; più precisamente, negli ultimi secondi del suo ultimo minuto. Ogni mese di questo calendario cosmico equivale a 1,14 miliardi di anni; ogni giorno rappresenta 38 milioni di anni; ogni secondo equivale a 440 anni della nostra storia: un battito di ciglio nello spettacolo del tempo cosmico. Cambiamo ora scala di riferimento e passiamo dai mesi ai minuti. Ci accorgiamo così che il primo essere umano fa la sua comparsa intorno alle 22:30 del 31 dicembre. E con il passare di ogni minuto cosmico, della durata di poco più di 26 mila anni, l'essere umano inizia l'arduo cammino verso la comprensione della sua identità: dove vive e chi è. Ore 23:46 circa, solo 14 minuti prima del presente, gli esseri umani riescono a capire come domare il fuoco. Ore 23:59:20 circa, la sera dell'ultimo giorno dell'anno cosmico, l'uomo inizia ad addomesticare piante ed animali, e al tempo stesso inizia anche a fabbricare utensili. Ore 23:59:35 circa: l'agricoltura permette all'uomo di stanziarsi e di creare così le prime comunità, da cui prenderanno forma le prime città. L'essere umano è apparso nel calendario cosmico così recentemente che la nostra storia documentata occupa soltanto gli ultimi pochi secondi dell'ultimo minuto del 31 dicembre. Nell'immenso oceano temporale che questo calendario rappresenta, tutte le nostre memorie sono confinate in un piccolo granello di tempo. Ogni persona di cui si sia sentito parlare ha vissuto da qualche parte in questo piccolo granello. Ogni Re, ogni battaglia, ogni migrazione ed invenzione, ogni guerra ed ogni amore, sono accaduti qui, negli ultimi 10 secondi del calendario cosmico. In questo lungo cammino, che è la vita dell'Universo, è come se ci fossimo appena svegliati. Siamo il frutto di 13,7 miliardi di anni di evoluzione cosmica. Dobbiamo scegliere, quindi: possiamo migliorare la vita e scoprire l'Universo di cui facciamo parte, o possiamo sprecare la nostra eredità di 13,7 miliardi di anni in un'autodistruzione senza senso. I segni di essa sono chiaramente visibili dall'alto: la NASA, per esempio, mette a disposizione un'interessante rassegna di 309 foto che comparano alcuni luoghi della Terra visti dall'alto al momento attuale e in un passato non troppo lontano. Più della metà di esse riguardano l'impatto ambientale originato dall'essere umano; si passa dall'insostenibile espansione delle città all'incosciente utilizzo e gestione delle terre agricole e delle risorse idriche. Non mancano però anche note positive, come la riduzione dell'inquinamento da diossido di azoto in alcune zone del pianeta e la costruzione di dighe ad hoc per la fornitura di acqua ed energia elettrica. Il problema è che ad ogni passo fatto in avanti ne seguono almeno quattro nel senso opposto. (clicca sulle immagini per ingrandire) Agricoltura intensiva nel deserto dell'Arabia Saudita, da sinistra a destra, anno 1987, 2000, 2012. Appena 2,5 cm di pioggia all'anno cade nel deserto dell'Arabia Saudita, ma le coltivazioni continuano a crescere grazie alle falde acquifere sotterranee, che contengono riserve d'acqua risalenti all'ultima era glaciale e acqua piovana accumulatasi nel corso di centinaia di migliaia di anni. Secondo gli idrologi queste riserve si esauriranno già entro 50 anni. Fonte: NASA Espansione urbanistica sul Delta del Fiume delle Perle, Repubblica Popolare Cinese (1988 a sinistra, 2014 a destra). Un tempo rete intrecciata di fiumi e correnti, attraverso campi di riso e grano, frutteti e piccoli laghi sfruttati per la pesca. Oggi le città di questa zona costituiscono un'enorme metropoli. In meno di trent'anni la popolazione è più che quadruplicata, passando da 10 milioni a 42 milioni di abitanti. Se considerata come un'unica entità , la zona del Delta del Fiume delle Perle ha superato Tokyo come area urbana più estesa del mondo in termini di dimensioni e popolazione. Fonte: NASA La Cuesta del Viento (1996 a sinistra, 2013 a destra) è una diga argentina costruita tra il 1997 ed il 1998 sul fiume Jáchal. La diga controlla il flusso dello scioglimento stagionale dei ghiacciai delle Ande e fornisce acqua per l'irrigazione di piantagioni di frutta e di altre coltivazioni. Fonte: NASA La diga Samuel, situata lungo il fiume Jamari nello stato della Rondonia, in Brasile. L'immagine mostra l'area nel 1984 (a sinistra), poco prima della costruzione della diga, e nel 2011 (a destra). Il bacino creato dalla diga ha inondato una parte significativa della foresta circostante e costretto a dislocare 238 famiglie di agricoltori. La diga ha avuto, inoltre, un importante impatto sulla fauna locale. Dalle immagini è evidente anche la deforestazione che affligge gran parte di questa regione. Fonte: NASA, NCBI (http://goo.gl/cbfHmp) La costruzione di allevamenti intensivi di gamberi ha modificato notevolmente la linea di costa a Sonora, Messico. L'industria del gambero ha generato profitti e posti di lavoro, ma sono nate anche alcune preoccupazioni circa i suoi effetti sugli ecosistemi della regione. Sono inoltre sorte dispute in merito ai diritti di proprietà per le terre costiere. A sinistra 1993, a destra 2011. Fonte: NASA Gli allevamenti intensivi sfuggono al controllo delle popolazioni residenti e si inseriscono nel grande circuito commerciale planetario. L'acquacoltura di gamberi diventa un tassello del grande business internazionale con il conseguente utilizzo del prodotto per l'esportazione, e la sua sottrazione al consumo locale. Naturalmente l'avvio di una simile impresa non può avvenire se non in presenza di capitali immessi da multinazionali esterne, che gestiscono produzione e distribuzione. Le conseguenze sono importanti sotto il profilo economico (cancellazione di un sistema basato sulla produzione e sul consumo locale di cibo), sociale (vengono sconvolti i ruoli delle persone), ambientale. Il fiume cinese Yangtze (diga delle Tre Gole), il fiume più lungo dell'Asia ed il terzo a livello mondiale. A sinistra: 2001. A destra: 2003. La diga delle Tre Gole è l'impianto energetico più potente e controverso del mondo. La costruzione del suo bacino ha sommerso numerosi siti archeologici e costretto a mobilitare circa 1,3 milioni di persone. Il danno ambientale è notevole, considerando l'enorme erosione che ogni anno fa acculumare 40 milioni di tonnellate di sedimenti nei tratti di calma dello Yangtze, nei pressi della diga. L'erosione è causa di frequenti frane significative: nei primi mesi del 2010 se ne sono verificate 97. La regione della diga era inoltre conosciuta per la sua ricca biodiversità : essa ospitava circa 6.400 specie di piante, di cui il 57% sono state danneggiate, oltre a 361 specie di pesci, di cui il 27% sono ora a rischio di estinzione. Fonte: NASA, The Times, Science. Quella che vedete qui sotto, invece, è una foto che ho scattato da 11.000 metri di quota sopra il mar Ligure, tra l'isola d'Elba e la Corsica, in cui è ritratto un mare dalla trama tanto artistica quanto allarmante. Le chiazze bianche che macchiano letteralmente il mare, e che in realtà si estendevano per chilometri, sono plastica che galleggia. Durante il volo ho identificato altre due zone simili: la prima al di sopra del Tunnel della Manica e la seconda sopra il mare d'Irlanda. Un panorama che non è una novità. Ogni anno, infatti, un’enorme quantità di rifiuti plastici finisce nei mari. Le correnti oceaniche, nel loro percorso, formano dei giganti mulinelli, chiamati Vortex, in cui la plastica si ammassa fino a formare vasti accumuli di spazzatura galleggiante. Di queste matasse di rifiuti se ne trovano due nell’Oceano Pacifico, due nell’Atlantico e una nell’Oceano Indiano. Studi recenti, condotti dai ricercatori del 5Gyres Institute in 6 anni di lavoro e campionamenti effettuati percorrendo 50.000 miglia nautiche, hanno stimato che la quantità di plastica galleggiante presente negli oceani si aggira intorno alle 270.000 tonnellate. La maggior parte dei detriti rimane nei vortici oceanici, ma ogni giorno un’importante percentuale arriva sulle coste e riprende a vagare nel mare. A causa dei raggi ultravioletti, che fotodegradano i pezzi di plastica, e all’azione delle onde, i rifiuti si riducono in pezzetti, talvolta così piccoli da essere invisibili, che i pesci e gli uccelli marini, più o meno avvertitamente, ingeriscono. Sebbene sia difficile stabilire il reale impatto di questo tipo di inquinamento, uno studio del WSPA (World Society for the Protection of Animal) indica che ogni anno più di 136 mila animali marini e non (tra cui balene, tartarughe marine, delfini, focene, elefanti marini, otarie, ma anche svariati uccelli marini come albatri di Laysan - tra l'altro prossimi alla minaccia di estinzione - , fulmari, fratercule, ùrie) muoiono perché rimangono intrappolati nei rifiuti plastici, principalmente in reti da pesca abbandonate. C’è un particolare, inoltre, da tenere in considerazione: secondo quanto recentemente verificato, la plastica ingerita danneggia gli organi interni dei pesci, rilasciando così sostanze tossiche nei tessuti degli stessi animali. La plastica entra quindi nella catena alimentare; e tutta quella di cui cerchiamo di sbarazzarsi, alla fine ce la ritroviamo nel nostro piatto. Ma il fenomeno della plastica in mare è un problema di dimensione globale e non riguarda solo gli oceani. Secondo l'ultimo monitoraggio effettuato da Legambiente nel mar Mediterraneo, il 95% dei rifiuti avvistati è costituito da plastica, di cui più della metà è rappresentato da fogli di plastica, interi o frammentati, e buste di plastica. Il resto comprende cassette di polistirolo (evidente rifiuto della pesca), bottiglie di plastica, reti da pesca abbandonate e lenze, stoviglie di plastica. Tutto ciò non intende certamente criminalizzare la plastica in sé, ma vorrebbe piuttosto sollecitare l’industria a gestire l’insieme del ciclo di vita dei suoi prodotti, favorendo il riciclo e il riuso delle materie, nonché la produzione di polimeri biodegradabili. Ad ogni modo, come nel caso della plastica, l'essere umano dovrebbe sfruttare le sue immense capacità anche nell'ottimizzare la produzione di energia e di cibo, con un occhio di riguardo a ciò che gli sta attorno e gli permette di vivere, cioè un ambiente sano e non certo inospitale come quello che sta contribuendo a creare. Dall'alto sembra che l'essere umano abbia dato prova della sua quasi totale incapacità di apprezzare, e in un certo senso anche di amare, la preziosa singolarità che la natura ha messo a sua disposizione. E più ci si avvicina alla superficie, più se ne scorge la conferma.
Spesso pensiamo di sapere tutto senza in realtà aver capito niente. Spesso le scelte che facciamo sono spinte dalla nostra convinzione che ogni cosa su questo pianeta sia a nostra completa disposizione. «Per tutte le nostre presunzioni sull'essere al centro dell'universo, noi viviamo in un comune pianeta di una monotona stella ficcata in un oscuro angolo, in una galassia ordinaria che è una di circa 100 miliardi di galassie. Questo è il fatto fondamentale dell'Universo che abitiamo. Ed è un bene per noi arrivare a capirlo» - Carl Sagan. Cosa accade nel primo secondo del prossimo anno cosmico dipende pertanto dalle nostre scelte, da ciò che facciamo, qui e ora, con la nostra intelligenza e la nostra conoscenza del cosmo e di ciò che ci circonda. «Come posso mangiare bene se guadagno SOLO 1000 euro al mese?». Questa è una domanda che sempre più spesso sento formulare da un numero crescente di persone. Ma perché la spesa per la nostra alimentazione grava così tanto sulle nostre tasche? La risposta è che l'umanità è molto più propensa a decidere sulla base dell'emotività invece che sulla razionalità. Questo è quanto scaturisce dai più attuali studi neuroscientifici, i quali hanno dimostrato che la mente umana non è in grado di comprendere i meccanismi che regolano i propri pensieri e le proprie azioni; l'individuo è infatti consapevole solo di una piccola percentuale di ciò che accade realmente durante un processo decisionale (per approfondire: L'illusione del libero arbitrio). Certamente questo aspetto ha ripercussioni sia negative che positive sulla vita di tutti i giorni. Le prime sono quelle con cui il settore del marketing va praticamente a nozze, perché ciò che un'azienda vuol vendere è innanzitutto un'emozione, e non un semplice prodotto. Ed è proprio questo aspetto che ci spinge a preferire una marca anziché un'altra. Se poi il prodotto in questione è di buona qualità o meno, ciò rappresenta un dato che passa in secondo piano; non si spiegherebbe, altrimenti, come facciano certe grandi aziende a fatturare ancora miliardi di euro l'anno, ottenendo anche discreti risultati in termini di crescita. L'emotività può essere presa di mira dalla pubblicità e raggirata affinché soddisfi le meschine richieste del mondo del marketing, ma può costituire innanzitutto la chiave di un'umanità che stiamo via via perdendo. Ma soprattutto, l'emotività è la chiave per la creatività. Una creatività che ci spinge, appunto, a creare, a trovare soluzioni alternative per risolvere questioni di varia natura. E se creiamo, significa che ragioniamo, cioè pensiamo, riflettiamo. In questa visione d'insieme si può quindi constatare quanto emotività e razionalità, in determinate condizioni, possano anche essere connesse tra loro, e quindi, in un certo senso, agire sinergicamente. In questo articolo si parla di alimentazione, pertanto diamo ora un'occhiata al video seguente, il quale mostra approssimativamente come viene "prodotto" parte del cibo che acquistiamo, e traiamone le conclusioni sotto l'aspetto emotivo. «Se i macelli avessero le pareti di vetro saremmo tutti vegetariani», diceva Lev Tolstoj, uno dei tanti che ha voluto vedere un po' oltre il proprio individualismo. Spesso, infatti, ci dimentichiamo di far parte di un pianeta in cui possiamo considerarci solo dei turisti di passaggio. Viviamo all'interno di ecosistemi che se non preserviamo non ci garantiranno la sopravvivenza. Preoccuparsi della propria salute non basta, perché la nostra salute è legata intrinsecamente a quella dell'ambiente in cui viviamo ed ad un equilibrio tra tutte le altre specie viventi. È elementare. La carne non fa male solo a noi, come ha decretato anche l'OMS non molto tempo fa, ma a tutto l'ambiente che ci circonda. Gli animali che mangiamo fanno parte di questo ambiente, il cui equilibrio è alterato in misura considerevole anche dalla produzione di carne. Spesso ci dimentichiamo, o addirittura nemmeno sappiamo, che ogni anno vengono macellati decine di miliardi di animali, senza contare le centinaia di tonnellate di pesce sottratte a mari sempre più simili a deserti d'acqua. Si produce carne a ritmi spasmodici e alla stregua di un qualsiasi oggetto, ma non si pensa che quella carne che macelliamo, processiamo e impacchettiamo, apparteneva in principio ad un essere senziente quanto noi. Al dilemma «fa male, o non fa male?», dovremmo pertanto chiederci anche «a chi?», oltre a noi s'intende, considerando che non siamo gli unici abitanti di questo pianeta. Uccidere gli altri animali è un atto di sfruttamento e violenza. Molte persone, inoltre, provano orrore per l'abitudine di altri popoli di mangiare cani o balene, ma questi animali non soffrono di più degli animali la cui carne è abitualmente consumata in Europa. La differenza sta solo nell'abitudine, non nella morale. «Spesso le persone sostengono che gli umani hanno sempre mangiato animali, come se questo giustificasse la continuazione della pratica.» - sentenziò il premio nobel per la letteratura Isaac B. Singer - «Secondo questa logica, non dovremmo neppure impedire l'omicidio, perché anch'esso è sempre stato praticato dall'inizio dei tempi». Forse più che denaro, avremmo bisogno di più sensibilità. Corriamo e corriamo con l'unico obiettivo di crescere economicamente. Sembra che la sola cosa in cui riusciamo ad immedesimarci non sia altro che il denaro che accumuliamo. Ma noi non siamo il nostro denaro; noi siamo noi. Ci si lamenta che uno stipendio mensile di 1000 euro non basti per permetterci un'alimentazione di qualità, ma sempre più spesso non ci si domanda il perché essi non siano sufficienti. Potrà sembrare paradossale per molti, ma se scegliessimo con più cura e consapevolezza ciò che ci serve per vivere, anche il nostro portafoglio smetterebbe di piangere. Vediamo ora di fare due conti sul piano pratico. Ebbene, premetto che PER MANGIARE MI BASTANO MENO DI 3 EURO AL GIORNO. Una volta mi sono domandato «quanto spendo ogni mese per il cibo?». È trascorso un mese ed è giunta l'ora di tirare le somme. Secondo le stime attuali la spesa media quotidiana degli italiani si aggira intorno ai 7 euro a persona, per un totale di 210 euro al mese. Premetto che sono vegetariano e ciò che mangio va comunque ben oltre l'insalata e le bacche di cui molti pensano che un vegetariano si nutra. Anzi, in realtà la dieta vegetariana è molto più varia di quanto si pensi. Ve ne è una manciata di esempi (oltre 140 ricette) nel mio ultimo libro "A tavola con Ippocrate", il quale, ricordo, è scaricabile gratuitamente. Ma torniamo ai conti! Preciso innanzitutto che condivido un piccolo appartamento con la mia ragazza, un'ottima cuoca con cui mi lancio volentieri in piacevoli "sfide" culinarie. Questo mese la nostra spesa è stata di 161,80 euro (comprese cene con amici, eventuali uscite - poche - e pranzi al sacco), vale a dire circa 2,70 EURO AL GIORNO A TESTA. A questo conto è quantomeno doveroso aggiungere anche il costo di luce (per forno e frullatore) e gas (per i fornelli), che complessivamente si aggira intorno ai 0,35 euro al giorno, cioè circa 0,18 EURO A TESTA. QUINDI LA SPESA INDIVIDUALE TOTALE AMMONTA A 2,88 EURO AL GIORNO, per un totale di 86,40 EURO AL MESE, ovvero QUASI IL 60% IN MENO della media nazionale. (E, ad essere sinceri, questo mese ci siamo concessi anche qualche sfizio in più del solito) Non male, considerando che oltre al risparmio immediato vi è anche un guadagno sul lungo termine, vale a dire sulla salute, oltre che un risparmio sulle medicine. Il sottoscritto, infatti, ha sofferto per quasi 10 anni di colite spastica, un'infiammazione intestinale a dir poco debilitante, che non auguro a nessuno e da cui mi sono completamente liberato con il semplice mangiar sano; ora non ho nemmeno più bisogno della più blanda enterogermina. Ma non è tutto. Il sottoscritto ha sofferto per anni anche di gastrite cronica e non sono mancati eventi di ulcera gastrica (sì, le ho tutte io!...anzi, le avevo), i quali si sono risolti con un'alimentazione corretta ed un'idratazione adeguata - a questo proposito puoi leggere l'articolo precedente: Acqua e salute: uno sguardo approfondito - . Insomma, il risparmio è TOTALE. E in fin dei conti, se si vuole risparmiare basta solo volerlo fare. Ed inoltre, non importa molto DOVE si compra, ma COSA si compra. Contrariamente al cibo e in generale alla maggior parte delle sostanze organiche conosciute, l’acqua è sempre stata considerata dalla comunità scientifica un componente inerme, "morto", una semplice molecola di idrogeno ed ossigeno che possiede alcune proprietà chimico-fisiche, ma che sicuramente è lontana dall’idea che possa essere qualcosa di "vivo". Che l’acqua potesse essere qualcosa di più e che quindi avesse virtù particolari è un pensiero che ha radici antichissime. E se fossimo realmente in grado di prevenire, o addirittura curare, ogni male che affligge la salute umana con della semplice acqua? Difficile a dirsi, anche se pare che molte malattie che attualmente affliggono milioni di persone in tutto il mondo derivino da una semplice causa non riconosciuta: la disidratazione. È quanto afferma il medico iraniano Fereydoon Batmanghelidj, in seguito a oltre 20 anni di studi e ricerche avallate da numerose testimonianze di persone che sono guarite grazie all'acqua. Oltretutto, tutto ciò, senza ricorrere alla sperimentazione animale, una pratica pressoché inutile, considerando già soltanto l'evidente eterogeneità genetica riscontrata all'interno della stessa specie, come tra uomo e donna all'interno della specie umana. Nato in Iran nel 1931, il dottor Fereydoon Batmanghelidj ha studiato medicina all'Università di Londra. Ha esercitato a Teheran fino al 1979 quando, assieme a moltissimi iraniani dotati di capacità professionali e creative, fu trascinato in prigione per essere fucilato durante la rivoluzione islamica iraniana, che trasformò la monarchia del paese in una repubblica islamica. Alcuni vennero fucilati nel giro di alcuni giorni, ad altri era concesso un po' più di tempo prima di essere "processati". Il dottor Batmanghelidj fu fortunato a ritrovarsi nel secondo gruppo. Il ritardo con cui fu sottoposto a giudizio fu dovuto probabilmente al fatto che le sue capacità di medico erano utili ai dirigenti della prigione. Egli trascorse due anni e sette mesi nella prigione Evin di Teheran, costruita per 600 persone, anche se in un periodo ne ospitò circa 8.000. Nella fase di massimo furore rivoluzionario, quando furono incarcerati membri di diverse parti politiche, le autorità usarono celle da 6-8 detenuti per segregarne fino a 90: un terzo doveva stare disteso, un terzo accovacciato e un terzo in piedi. Dopo poche ore, i prigionieri dovevano, a rotazione, scambiarsi le posizioni. L'incubo della vita e della morte in quel buco infernale perseguitava tutti e mise alla prova il coraggio e la resistenza sia dei forti che dei deboli. Fu allora che il corpo umano rivelò al dottor Batmanghelidj alcuni dei suoi maggiori segreti; segreti mai compresi dalla scienza medica. Per la maggior parte dei prigionieri, di età compresa tra i 14 e gli 80 anni, la pressione di questa vita eccezionalmente dura causò molto stress e malattie. Dopo circa due mesi dalla sua reclusione, il dottor Batmanghelidj si rese conto che un suo compagno di cella soffriva di terribili dolori allo stomaco. Egli non riusciva nemmeno a camminare da solo. Gli altri, intorno a lui, lo aiutavano a stare in piedi. Soffriva di un'ulcera peptica, aveva bisogno di un medicinale e rimase malissimo quando il dottor Batmanghelidj gli disse che non gli era stato permesso di portare con sé in prigione scorte di medicinali. Allora l'unica cosa che gli somministrò furono due bicchieri d'acqua. Il dolore scomparve in pochi minuti ed il compagno di cella potè stare in piedi da solo. «Che accade se il dolore ritorna?», chiese il detenuto a Batmanghelidj. «Bevi due bicchieri d'acqua ogni 3 ore», gli rispose. Fu libero dal dolore e dalla malattia per il resto della sua detenzione. Questa "cura dell'acqua" in quell'ambiente così inospitale stupì il dottor Batmanghelidj a tal punto da chiedersi se essa non meritasse un'ulteriore ricerca. Batmanghelidj iniziò ad identificare i numerosi problemi di salute causati dallo stress della prigionia. Nella maggior parte dei casi essi implicavano dolori di natura ulcerosa. Successivamente scoprì che l'acqua poteva trattare e sanare più malattie di qualunque altra medicina conoscesse: egli vide capovolgere completamente stati come asma, angina, ipertensione, emicrania, dolori artritici, mal di schiena, dolori da colite e stitichezza cronica, bruciori di stomaco, ernia iatale, depressione, sindrome da stanchezza cronica, alto tasso di colesterolo, nausea mattutina. Durante la sua permanenza in prigione di quasi tre anni il dottor Batmanghelidj curò oltre 3.000 casi di ulcera con la sola acqua. L'acqua che la medicina ufficiale ha abbandonato come indegna di ricerca. La classe medica di oggi non comprende il ruolo vitale dell'acqua nel corpo umano. I medicinali sono palliativi, non sono cioè idonei a curare le malattie degenerative del corpo umano, ma sono solo in grado di allontanare i sintomi da esse scaturiti. EVOLUZIONE E FABBISOGNO IDRICO Quando la vita sulla terraferma divenne un obiettivo, fu necessaria la creazione di un sistema sempre più complesso di conservazione dell'acqua nel corpo per lo sviluppo di nuove specie. Per le prime specie che vivevano nell'acqua, l'avventura al di là dei confini conosciuti rappresentava un grande stress, in quanto rischiavano di disidratarsi. Questo stress diede origine a una fisiologia dominante per la gestione di crisi da mancanca di acqua. Dato che ogni funzione del corpo è controllata e stabilizzata dal flusso dell'acqua, la "gestione dell'acqua" è l'unico modo per essere sicuri che consistenti quantità di essa, e di sostanze nutritive che essa trasporta, raggiungano per primi gli organi sommamente vitali che dovranno affrontare e trattare qualsiasi nuovo stressor, ovvero un qualsiasi elemento in grado di far perdere al corpo l'equilibrio allostatico, quel processo adattativo che l'organismo innesca per mantenere attivamente la propria stabilità attraverso il cambiamento. Questo meccanismo divenne sempre più stabilizzato ai fini della sopravvivenza contro i nemici naturali e i predatori. È l'estremo sistema operativo per la sopravvivenza nelle situazioni "o lotti, o fuggi". È sempre lo stesso meccanismo nell'ambiente competitivo della vita moderna nella nostra società. Uno degli inevitabili processi nella fase di razionamento dell'acqua nel corpo è la spietatezza con cui alcune funzioni sono controllate, in modo che un organo non riceva più della sua quota predeterminata di acqua. Ciò vale per tutti gli organi del corpo. All'interno di questo sistema di razionamento dell'acqua, la funzione cerebrale ha priorità assoluta su tutti gli altri sistemi. Nelle società avanzate, pensare che tè, caffè, alcol e bibite siano piacevoli sostituti per il naturale bisogno di acqua del corpo sottoposto a uno stress quotidiano è un errore elementare, ma catastrofico. È vero che queste bevande contengono acqua, ma esse contengono anche elementi disidratanti, quindi diuretici (troverete molteplici articoli e pubblicazioni che proverebbero che la caffeina non sortisce un effetto disidratante. Ebbene, l'unica grande nota a sfavore di queste ricerche è il fatto che esse sono state condotte solo ed esclusivamente sui topi, a differenza degli studi condotti dal dottor Batmanghelidj direttamente sugli esseri umani). Esse fanno pertanto espellere non solo l'acqua in cui sono diluite, ma anche altra acqua sottratta dalle riserve del corpo. I moderni stili di vita rendono spesso le persone dipendenti da ogni specie di bevande prodotte per scopi commerciali. I bambini non vengono educati a bere acqua e diventano dipendenti da bibite (gassate, con caffeina e dolcificanti) e succhi di frutta. Questa è un'auto-retrizione delle necessità di acqua del corpo. In linea generale, non è possibile bere bevande confezionate per rimpiazzare completamente l'acqua di cui abbiamo bisogno. Allo stesso tempo, una preferenza prolungata per il gusto di queste bibite riduce automaticamente l'impulso di bere acqua quando esse non sono disponibili, conducendo così alla disidratazione. La disidratazione cronica del corpo indica una carenza di acqua persistente che è divenuta stabile per un certo periodo di tempo. Come ogni altro disturbo dovuto a carenze, come la carenza della vitamina C nello scorbuto, di vitamina B1 nel beri beri, di ferro nell'anemia, di vitamina D nel rachitismo e così via, il più efficace metodo di trattamento di disturbi associati consiste nel fornire l'elemento mancante. Allo stesso modo, se riconosciamo le complicazioni per la salute dovute alla disidratazione cronica, la prevenzione e perfino la cura tempestiva diventa semplice. Ad oggi, in campo medico, la sensazione della bocca secca è l'unico sintomo riconosciuto della disidratazione del corpo. Ma questo segnale non è che l'ultimo sintomo esteriore di estrema disidratazione. Il danno si verifica a un livello di persistente disidratazione, che non si evidenzia necessariamente attraverso il sintomo della bocca arida. ACQUA E DOLORI DISPEPTICI È stato dimostrato sperimentalmente che quando beviamo un bicchiere d'acqua essa passa immediatamente nell'intestino e viene assorbita. Tuttavia, entro 30 minuti, circa la stessa quantità di acqua viene immagazzinata nello stomaco attraverso il suo strato ghiandolare nella mucosa (vedi "Fossette gastriche" in figura). Essa sale dal basso e arriva nello stomaco, pronta ad essere usata per la frantumazione del cibo. L'acido si spande sul cibo, gli enzimi si attivano e il cibo viene sminuzzato e ridotto in uno stato fluido omogeneo che può passare nell'intestino per la fase successiva della digestione. Il muco ricopre lo strato ghiandolare della mucosa (vedi "Epitelio mucoso" in figura). Esso consiste per il 95% di acqua e per il 5% da una sorta di "impalcatura" che intrappola l'acqua, costituita principalmente da una proteina, chiamata mucina che, insieme all'acqua e ai sali organici in essa sospesi, svolge un'azione lubrificante. Le cellule sottostanti lo strato di muco secernono bicarbonato di sodio, il quale resta imprigionato negli strati di acqua. Ogni volta che l'acido presente nello stomaco cerca di attraversare questo strato protettivo, il bicarbonato lo neutralizza. Il risultato di questa azione è una maggiore produzione di sale (sodio dal bicarbonato di sodio e cloro dall'acido cloridrico). L'eccesso di sale altera la proprietà della suddetta "impalcatura" di trattenere l'acqua. L'eccessiva attività di neutralizzazione dell'acido e i conseguenti depositi di sale in questo strato di muco potrebbero renderlo meno omogeneo e denso, permettendo così all'acido di raggiungere lo strato di mucosa successivo, causando dolore. Il disegno della natura nel far ripassare l'acqua attraverso lo strato della mucosa sembra essere quello di un "lavaggio dal basso" dello strato stesso per liberarlo dai depositi di sale. Questo è un processo altamente efficace per facilitare la secrezione di nuovo muco, un vero e proprio scudo naturale protettivo dello stomaco contro l'acido. Naturalmente, l'efficienza di tale scudo dipende da una regolare assunzione d'acqua, in particolar modo prima di ingerire diversi cibi solidi che stimolerebbero la produzione di acido cloridrico da parte delle ghiandole presenti nelle pareti dello stomaco. In tal modo, l'acqua procura l'unica protezione naturale contro l'acido dello stomaco, dal basso verso l'alto. Gli antiacidi, invece, hanno il compito di attaccare l'acido nello stomaco; una protezione non efficiente. Il dolore dispeptico non è affatto l'indicatore di un fenomeno isolato e localizzato. In qualsiasi caso, questo dolore è un sintomo di disidratazione del corpo, perfino quando è associato a un'ulcera. Se bevete acqua e ciò allevia il vostro dolore, con una alimentazione corretta, ed evitando anche e soprattutto alcol e fumo, l'ulcera dovrebbe guarire da sola a tempo debito. Attualmente si ritiene che le ulcere siano il risultato di infezioni dovute al batterio Helicobacter pylori, ma in realtà esso non è che un commensale, cioè facente parte di una classe di batteri che albergano naturalmente nel nostro stomaco. Essi possono approfittare scorrettamente del sistema immuno-soppressivo, azione che è il risultato diretto della disidratazione. I normali batteri convivono con noi e producono gran parte delle vitamine di cui necessita il nostro corpo. Essi contribuiscono al nostro benessere quando siamo sani. ACQUA E DOLORI ARTRITICI Una disidratazione cronica è anche la causa di molteplici e fastidiosi dolori artritici. Basti pensare alla struttura delle articolazioni. Nelle diartrosi, le più comuni articolazioni del corpo umano che comprendono ad esempio l'articolazione del ginocchio, del gomito, della spalla, dell'anca, della caviglia, le superfici articolari sono ricoperte da una guaina di tessuto connettivo fibroso, detta capsula articolare, rivestita al suo interno dalla membrana sinoviale. Tra i capi ossei che formano l'articolazione, e la suddetta capsula articolare, esiste uno spazio virtuale più o meno ampio, ripieno di un sottile film di liquido sinoviale, che è il prodotto della membrana sinoviale vascolarizzata, la quale secerne il liquido per filtrazione del plasma (il plasma rappresenta circa il 55% del volume del sangue, e l'acqua costituisce il 92% del volume plasmatico). Normalmente, in un'articolazione sinoviale si trovano meno di 3 ml di liquido sinoviale. Questa quantità relativamente esigua di liquido deve essere continuamente riciclata per arricchirsi di nutrienti ed eliminare i prodotti di rifiuto dei condrociti (o cellule cartilaginee) che si trovano nella cartilagine articolare. La circolazione del liquido sinoviale è guidata dal movimento articolare, che determina cicli di compressione ed espansione nelle cartilagini articolari opposte. Durante la compressione, il liquido sinoviale viene spinto fuori dalle cartilagini articolari, mentre durante l'espansione è risucchiato all'interno delle cartilagini. Questo flusso di liquido sinoviale all'interno e all'esterno delle cartilagini articolari consente il nutrimento dei condrociti. In questa fase, l'attività fisica gioca pertanto un ruolo fondamentale. Bisognerebbe rendersi conto che anche le giunture spinali - le articolazioni intervertebrali e le strutture del loro disco - dipendono dalle proprietà idrauliche dell'acqua immagazzinata nel nucleo del disco, così come la placca terminale della cartilagine che copre le superfici lisce delle vertebre spinali. Nelle giunture vertebrali spinali, l'acqua non è soltanto un lubrificante per le superfici di contatto; essa è contenuta nel nucleo del disco all'interno dello spazio intervertebrale e sostiene il peso della compressione della parte superiore del corpo. Il 75% del peso della parte superiore del corpo è interamente sostenuto dal volume dell'acqua immagazzinata nel nucleo del disco, mentre il 25% è supportato dai materiali fibrosi intorno al disco. In tutte le articolazioni, l'acqua agisce come lubrificante e supporta l'azione prodotta dal peso o dalla tensione muscolare sulla giuntura. Una volta iniziata la disidratazione, tutte le parti del corpo iniziano a soffrirne. I dischi intervertebrali e le loro articolazioni sono i primi della fila. In particolare, il quinto disco lombare è intaccato nel 95% dei casi. In tal caso, ad esempio per prevenire il mal di schiena, bisogna bere acqua sufficiente ed effettuare una serie di esercizi speciali per creare il vuoto intermittente al fine di indirizzare l'acqua nella zona del disco intervertebrale. Tali esercizi ridurranno inoltre lo spasmo nei muscoli della schiena, il quale è la causa principale del mal di schiena per la maggior parte delle persone. È anche necessario adottare posture corrette e praticare esercizi di rafforzamento dei muscoli. ACQUA E DISTURBI COGNITIVI I sintomi della disidratazione, comunque, non si limitano a disagi fisici, ma includono una vasta schiera di seri disturbi cognitivi e psicologici. La patologia che risulta associata agli stress sociali - paura, ansia, insicurezza, emotività e l'instaurarsi della depressione - è il risultato di una carenza di acqua in grado di intaccare il fabbisogno idrico del tessuto cerebrale. Il cervello, o meglio l'encefalo, è costituito dall'85% di acqua. Esso galleggia letteralmente nell'acqua: l'encefalo è infatti sospeso nel cranio e galleggia nel cosiddetto liquido cerebrospinale, o LCS. Un cervello umano pesa circa 1.400 grammi all'aria, ma è solo un po' più denso dell'acqua; quando galleggia nel LCS, ricevendo quindi una spinta di Archimede, il suo peso si riduce a 50 grammi. Come nel caso del liquido sinoviale, anche il LCS deriva dal plasma, anche se con qualche differenza di composizione rispetto ad esso. Il LCS è prodotto da alcune cellule specializzate che costituiscono i cosiddetti plessi coroidei (vedi figura qui sotto), i quali producono circa 500 ml di LCS al giorno. Il volume complessivo di LCS in ogni momento è di circa 150 ml. Ciò significa che l'intero volume di LCS viene rimpiazzato circa ogni 8 ore. Nonostante questo rapido turnover, la composizione del LCS è regolata in maniera rigorosa, e la velocità di produzione generalmente è pari alla velocità di riassorbimento. Motivo per cui il cervello non può assolutamente permettersi un deficit di acqua.
I neuroni hanno un'elevata richiesta di energia, sebbene manchino di riserve energetiche nella forma di carboidrati o lipidi. Inoltre, i neuroni sono privi di mioglobina (una proteina la cui funzione principale è facilitare l'estrazione dell'ossigeno dai capillari sanguigni), per cui non hanno la capacità di immagazzinare riserve di ossigeno. La richiesta energetica deve essere dunque soddisfatta da un'ampia irrorazione vascolare, la quale è agevolata, appunto, da un apporto adeguato di acqua. Quando il corpo si disidrata, inoltre, si instaurano gli stessi processi fisiologici che si verificano quando si affronta lo stress. La disidratazione equivale allo stress, e una volta che questo ha preso piede, si determina una contemporanea mobilitazione delle sostanze fondamentali dalle riserve corporee. Tale processo prosciugherà parte delle riserve di acqua del corpo. Di conseguenza, la disidratazione genera stress e lo stress causerà ulteriore disidratazione. In condizioni di stress, vengono messi in circolazione diversi ormoni tra cui endorfina, vasopressina e cortisone, i quali rimangono attivi fin quando perdura la condizione patologica.
In caso di disidratazione a livello nervoso, l’energia volta al loro funzionamento si riduce drasticamente portando ad un generale rallentamento delle funzioni e a un calo delle capacità cognitive dell’individuo. L’acqua viene "consumata" per permettere alla vasopressina di fare il proprio lavoro di compressione, ma se non viene progressivamente reintegrata si rischia di far perdurare in maniera cronica la condizione di stress con conseguenze pesanti non solo a livello psicologico, ma anche a livello fisico. Le ricerche del dottor Batmanghelidj hanno inoltre evidenziato che a partire dall'inizio dell'età adulta, approsimativamente tra i 18 e i 25 anni di età, gli esseri umani sembrano perdere la loro sensazione di sete e la percezione critica dell'aver bisogno di acqua. Non riconoscendo questo bisogno, diventano progressivamente e cronicamente disidratati mano a mano che invecchiano.
LE LINEE GUIDA DEL METODO Secondo il Dott. Batmanghelidj il nostro corpo ha un assoluto bisogno di circa 2 litri d'acqua al giorno. I momenti migliori per bere acqua sono al mattino presto e poi in relazione ai tre pasti principali (colazione, pranzo e cena), bevendo un quarto di litro, sia mezz’ora prima che due ore e mezzo dopo ogni pasto principale. L’ultima bevuta di acqua può essere fatta prima di andare a dormire. Per applicare il suo metodo, il dottor Batmanghelidj invita coloro che desiderano verificare le molteplici proprietà benefiche dell'acqua di accertarsi che i loro reni possano filtrare sufficiente urina, in modo da non trattenere troppa acqua nel corpo. L'espulsione di urina dovrebbe infatti essere proporzionata alla quantità di acqua che si ingerisce. Pertanto, a fronte di un'accresciuta ingestione di acqua, dovrebbe aumentare anche la fuoriuscita di urina. Inoltre, se l'urina è di un colore giallo paglierino significa che si sta assumendo la giusta quantità di acqua, se è scura significa che il fisico è disidratato. Se invece risulta trasparente, allora si sta bevendo troppo. Quale acqua bere? Non tutte le acque sono uguali, perciò facciamo ora un po' di chiarezza su questo aspetto fondamentale. Uno dei dati a nostra disposizione per capire se l'acqua che ingeriamo fa al nostro caso è il residuo fisso a 180°C, in quanto ci fornisce una stima del contenuto di sali minerali. Più questo valore è elevato e più sali sono disciolti in un litro. Tale dato si ottiene portando l'acqua ad una temperatura di 180°C; ciò che rimane dopo la completa evaporazione, e cioè la parte solida dell'acqua, rappresenta il residuo fisso. Questo valore si esprime in mg/L e permette di classificare le acque in quattro categorie:
Riflettiamo un momento su un aspetto molto importante. Nell'acqua possiamo trovare quantità di sali minerali da cui il nostro corpo può sicuramente trarre giovamento. I sali minerali contenuti nell'acqua (soprattutto calcio e magnesio, ma anche tracce di ferro e manganese) sono gli stessi identici sali minerali che troviamo in alimenti salutari come la frutta e la verdura, di cui si decantano tanto le proprietà benefiche. Allora perché mai dovremmo fare di tutto per liberarci dei sali contenuti nell'acqua, a volte anche ricorrendo a costosi addolcitori e depuratori? La risposta è quasi banale: l'acqua è un business. Una rete di esperti, società, ingegneri e lobby domina il dibattito su come la gente debba avere accesso all'acqua. E allora perché non demonizzare l'acqua del rubinetto imbottigliando acqua oligominerale, bella, leggera, praticamente inutile ai più, in modo poter creare un giro d'affari di oltre 2 miliardi di euro?! Tutto ciò viene creato a discapito della nostra salute, ma anche di quella dell'ambiente, a causa dei grandi quantitivi di plastica impiegati, di cui comunque solo un terzo viene recuperato e riciclato correttamente. Torniamo ora a parlare di un altro dato utile per poter riconoscere la qualità dell'acqua, e cioè il pH. Questo dato, riportato sull'etichetta delle acque minerali con il termine "pH alla temperatura dell'acqua di sorgente", ci dà una stima della loro acidità. Il pH è una scala che va da 0 (massima acidità) a 14 (massima basicità); il punto intermedio, 7, definisce la condizione di neutralità ed è dato dall'acqua distillata ad una temperatura di 25°C. Maggiore è il contenuto in anidride carbonica e solfati e minore sarà il pH (maggiore acidità). Residuo fisso a 180°C e pH sono entrambi presenti sulle etichette delle bottiglie che possiamo trovare al supermercato. Ma, fortunatamente, abbiamo a disposizione alcune tabelle molto utili che riguardano la composizione dell'acqua potabile che arriva nelle case di tutte le regioni e i comuni d'Italia. Le leggi nazionali ed europee impongono ormai controlli severissimi alle acque di acquedotto (cioè di rubinetto), molto più controllate di quelle “minerali”, cioè quelle in bottiglia. In definitiva, l’acqua di rubinetto è ottima, e non è proprio il caso di criminalizzarla ricorrendo a costose acque in bottiglia spesso di valore del tutto analogo, se non peggiore. Nonostante ciò, l'Italia è al secondo posto in Europa per il consumo di acqua in bottiglia, nonostante la nostra acqua pubblica sia oltretutto la meno cara in assoluto. Gli italiani proseguono nell'abitudine di acquistare acqua minerale gassata e naturale, anche quando potrebbero scegliere l'acqua del rubinetto e nonostante la diffusione delle fontanelle comunali, che permettono di prelevare acqua frizzante o senza bollicine ad un costo davvero contenuto, e addirittura gratis in alcune zone del Paese. Sebbene l'acqua pubblica sia a buon mercato, il 61,8% delle famiglie italiane acquista acqua minerale e il consumo medio è pari a 192 litri all'anno per persona. In media ogni famiglia italiana spende 234 euro all'anno per l'acqua in bottiglia. Questa cifra supera di gran lunga la spesa per consumo di vino che è pari a circa 137 euro all'anno per famiglia (dati ISTAT 2013), cioè circa il 70% in più rispetto a quella per l'acqua. Se non è business questo! E PER QUANTO RIGUARDA IL CLORO? Per rendere l'acqua potabile si ricorre spesso alla clorazione, il trattamento di disinfezione più diffuso in cui viene impiegato il cloro, il quale garantisce l'igienicità dell'acqua per tutto il suo percorso fino all'utenza. Il cloro in realtà è presente in tutte le forme di vita, compreso l'organismo umano (il sangue umano contiene una discreta quantità di ione cloruro). Anche in cucina è facile trovarlo: ogni giorno assumiamo sale, ovvero cloruro di sodio. Se l'acqua che esce dal vostro rubinetto risulta particolarmente clorata, il metodo più efficace per liberarsi di questo cloro in eccesso consiste nell’aggiungere all’acqua piccolissime quantità di vitamina C: è sufficiente un cucchiaino di succo di limone fresco ogni litro d'acqua. L’acido ascorbico, infatti, è un potente antiossidante e tratta il cloro come un qualunque radicale libero, neutralizzandolo. Ad ogni modo, in condizioni tipiche (poco cloro e poca o nulla contaminazione organica), l’acqua di acquedotto può essere bevuta senza problemi. Bisogna inoltre sottolineare che spesso siamo noi stessi a sporcare l'acqua che esce dai nostri rubinetti. Questo a causa della cattiva abitudine molto diffusa di pulire gli erogatori con la stessa spugna usata per passare sui piani di lavoro dove sono state appoggiate uova, verdure da lavare, etc.. Lo dimostra una ricerca presentata a Firenze nel corso del XXV congresso dell’Ordine Nazionale dei Biologi, condotta andando ad analizzare non l’acqua dell’acquedotto, ma proprio quella che esce dai rubinetti nelle case degli italiani. Fonti: - Il tuo corpo implora acqua - Fereydoon Matmanghelidj, 2004 - Anatomia Umana - Martini, Timmons, Tallitsch, 2012 L’evoluzione biologica è una proprietà inevitabile degli organismi viventi, in quanto capaci di autoriprodursi, cioè di produrre copie di sé stessi. Ma i doppioni che ne scaturiscono non sono mai identici perché in qualsiasi processo di copia si generano inevitabilmente errori, o più in generale cambiamenti. Che si tratti di cambiamenti volontari oppure involontari, essi compariranno nella copia (i figli) come novità, attese o inattese, osservate o inosservate. Se queste sono ereditarie, cioè trasmissibili ai figli dei figli e così di seguito a tutti i discendenti, è inevitabile che vi sia evoluzione. Gli errori o i cambiamenti possono avere costi e/o benefici: se il costo è maggiore del beneficio, saranno probabilmente eliminati; nel caso opposto, invece, saranno assimilati. L’evoluzione nella vita reale non è che una variazione nel tempo e nello spazio. Non riguarda soltanto gli organismi viventi, ma tutto il mondo fisico e chimico. Un tempo non c’erano le montagne che esistono oggi; altre esistevano già, ma erano più alte. Più anticamente, non c’era la Terra, ma c’era il Sole. In un tempo ancora più antico non c’era neanche il Sole. Anche noi, nel frattempo, siamo cambiati: per esempio, 60.000 anni fa in Europa vivevano solo uomini diversi da noi, di cui si conservano molti scheletri. Il primo è stato scoperto a metà dell’Ottocento scavando nella valle di Neander, in Germania occidentale, e ha dato il nome agli altri suoi simili, di cui sono stati trovati in seguito parecchi esemplari. Questi uomini erano più bassi di noi, ma relativamente più grossi, con ossa pesanti, mento e fronte prominente. Non se ne sono trovati resti databili a meno di 30.000 anni fa. Nelle ultime decine di migliaia di anni in Europa si sono rinvenuti solo resti di uomini molto simili a noi. Fino a pochi decenni orsono gli archeologi sostenevano che i Neanderthal si fossero evoluti negli europei moderni. Ma in seguito sono state scoperte e datate molte altre ossa e, combinando dati archeologici e genetici, si è ora giunti ad una conclusione molto interessante: tutti discendiamo da una popolazione di qualche migliaio di individui circa, che viveva in Africa orientale prima di 100.000 anni fa e che iniziò a riprodursi superando il limite di sopravvivenza nei luoghi di origine. Alcuni dei suoi componenti, in piccoli gruppi, crearono colonie vicine e vi si riprodussero con successo dando origine a nuove popolazioni, cresciute nel corso del tempo e dalle quali partirono in seguito altri gruppi di pionieri, per fondare nuove colonie a maggiore distanza. Nel corso dell’espansione originata da un piccolo nucleo iniziale di colonizzatori vi sono stati così centinaia o migliaia di episodi successivi di colonizzazione, che in seguito si sono estesi a tutto il mondo abitabile. Intorno a 60.000 anni fa queste popolazioni si sono diffuse al di fuori del continente africano. Ci sono voluti circa 50.000 anni per raggiungere il punto più lontano dall’origine, la Patagonia, attraversando tutta l’Asia e penetrando in America Settentrionale attraverso lo Stretto di Bering (un percorso di circa 25.000 chilometri). La dieta è stata una parte importante della nostra evoluzione, come dopotutto lo è stato per ogni specie. Abbiamo ereditato molti adattamenti dai nostri antenati paleolitici e la comprensione del modo in cui ci siamo evoluti potrebbe, in linea di principio, aiutarci a compiere oggi scelte alimentari più intelligenti.
A prescindere da ciò, è importante sottolineare che il cibo ha promosso l'evoluzione dell'uomo, ma qualche volta l'ha anche ostacolata. La nostra dieta è comunque sempre stata molto influenzata dai fattori climatici, aspetto rilevante che causò nell'uomo alcuni mutamenti adattivi. Il colore chiaro della nostra pelle è in realtà il risultato dell'espressione di tre diversi geni, ereditati da complesse interazioni e migrazioni all'interno del continente europeo. Il colore nero della pelle serve come protezione contro la radiazione solare ultravioletta, ove essa è molto forte (ai tropici, quanto più si è vicini all’equatore), mentre è importante che la pelle sia bianca quando l’alimentazione è povera di vitamina D3, la cui carenza provoca innanzitutto un'inadeguata mineralizzazione dello scheletro (rachitismo nei bambini, osteomalacia negli adulti), e poi debolezza muscolare e dolori addominali. La pelle bianca, infatti, permette ai raggi ultravioletti di raggiungere gli strati inferiori della cute, dove una provitamina derivata dal colesterolo, il deidrocolesterolo, si trasforma in un composto chiamato previtamina D3. Nell'arco di 48 ore, esso si converte spontaneamente in vitamina D3 che viene successivamente attivata prima a livello epatico e poi a livello renale. Questo meccanismo fu pertanto una consequenza dell'introduzione nella dieta dell'uomo di cibi poveri di tale vitamina, come il frumento, con cui iniziò a nutrirsi in seguito all'avvento dell'agricoltura. Sullo stesso piano, la tolleranza al lattosio, lo zucchero contenuto naturalmente nel latte, ha costituito un'ulteriore forzatura evolutiva: pare infatti che in origine nessun essere umano fosse in grado di digerire questo tipo di zucchero. A pensarci bene, infatti, siamo tuttora l'unica specie esistente al mondo ad assumere latte (e prodotti del latte) dopo lo svezzamento. Ad ogni modo, la tolleranza al lattosio non si diffuse fino a 4.300 anni fa, con la mutazione del gene codificante l'enzima lattasi (LCT). Già all’ottava settimana di gestazione la lattasi è presente sulla superficie mucosa dell’intestino tenue, per poi raggiunge il massimo di espressione alla nascita. Tuttavia dopo i primi mesi di vita l’attività della lattasi inizia a decrescere, a volte sino alla scomparsa. Questo comportamento negli altri mammiferi è abituale. Nell’uomo, invece, circa il 30% della popolazione mantiene l’attività della lattasi per tutta l’età adulta. Questo avviene soprattutto nelle popolazioni del Nord Europa, e loro discendenti, e sembra in relazione all’introduzione giornaliera nella dieta del latte di origine animale. La pelle bianca e la tolleranza al lattosio definirono pertanto una struttura in grado di garantire la sopravvivenza di alcune popolazioni in particolare. I due tratti potrebbero infatti essere legati alla necessità di massimizzare la sintesi di vitamina D3. Le popolazioni sviluppatesi alle alte latitudini potevano avere difficoltà a sintetizzare questa vitamina, per la scarsa esposizione della pelle ai raggi ultravioletti. L'evoluzione potrebbe averle aiutate in due modi, favorendo quindi la pelle chiara, che assorbe più facilmente i raggi solari (e quindi agevolando la produzione endogena di vitamina D3), e introducendo la tolleranza al lattosio, che permette di fruire della vitamina D3 naturalmente contenuta nel latte. Insomma, si può dire che l'evoluzione e il cibo ha in un certo senso sbiadito l'uomo moderno. In modo analogo si susseguirono ulteriori mutamenti fisici tuttora evidenti: ai tropici, dove l’aria è calda e umida e non danneggia i polmoni, le narici sono larghe e corte, mentre sono lunghe e affilate dove l’aria è fredda e secca. La forma delle palpebre comune in Asia orientale, che lascia una fessura sottile alla vista, protegge gli occhi nelle regioni, come la Mongolia, dove il vento è forte e gelido. Dopo la diffusione dall’Africa al resto del mondo, alcune regioni che offrivano un ambiente particolarmente favorevole allo sviluppo demografico, per ecologia e clima, l'Homo Sapiens raggiunse una densità di popolamento che non permetteva ulteriore crescita. In diverse parti del pianeta, perciò, comparvero sviluppi culturali che condussero alla produzione di cibo mediante l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento degli animali. La prima regione dove comparve l’economia agro-pastorale fu tra il Medio Oriente e l’Anatolia, a partire da circa 11.500 anni fa. Seguirono nuovi inizi nei millenni successivi, apparentemente autonomi, nella Cina del Nord e del Sud, in Messico, in Nuova Guinea, in Africa settentrionale e in quella occidentale. La maggiore disponibilità di cibo determinò un ulteriore sviluppo demografico. Negli ultimi 10.000 anni la popolazione umana è aumentata di mille volte, e una forte urbanizzazione si è avviata già 8.000 anni fa. Il grande sviluppo demografico dell’uomo moderno (dalle poche migliaia di individui di 100.000 anni fa, ai pochi milioni di 10.000 anni fa, quando comparve l’agricoltura, sino agli oltre sette miliardi odierni) è interamente dovuto all’evoluzione culturale, cioè alle nuove tecnologie sviluppate in questo periodo di tempo. Non si è trattato quindi di mutazioni genetiche, ma di "mutazioni" di tipo completamente diverso: idee nuove. Le idee più utili hanno potuto diffondersi rapidamente dall’inventore che le ha originate, grazie alla comunicazione resa possibile dal linguaggio e ai nuovi sistemi sociali che si sono sviluppati per la necessità di vivere a densità di popolazione sempre più alte. La sostituzione dei Neanderthal da parte degli uomini "anatomicamente moderni", cioè noi, è stata aiutata proprio dal nostro linguaggio, certamente molto più sviluppato. È utile, pertanto, interessarci anche di evoluzione culturale, ossia del progressivo cambiamento dei nostri costumi, delle nostre credenze e conoscenze, del perché continuiamo a inventare e a imparare cose nuove, o a dimenticarne altre. L’evoluzione culturale non è limitata alla specie umana, ma fra noi ha raggiunto una velocità molto elevata, grazie al linguaggio, alla struttura e alla storia delle nostre società. Non vi è accordo fra i linguisti sull’origine unica delle lingue, ma la capacità di qualunque gruppo di uomini vivente di imparare egualmente bene qualsiasi lingua delle oltre 6.000 ancora parlate oggi, prova che l’uomo moderno possedeva già i mezzi biologici quando è iniziata l’espansione. Il gruppo iniziale doveva essere piccolo, probabilmente delle dimensioni di una tribù che, per definizione, parla la stessa lingua. L’evoluzione culturale può essere descritta come un processo "quasi-intelligente". La limitazione fondamentale suggerita dal dubbio introdotto dalla parola "quasi" trae origine dalla nostra incapacità di valutare costi e benefici di ogni innovazione. L’esperienza dimostra che ogni innovazione, anche la più importante, ha costi oltre che benefici. L’agricoltura ha permesso di aumentare di mille volte il numero degli esseri umani, ma ha anche dato avvio alle prime forme di inquinamento ambientale su vasta scala, con l’erosione e la salificazione dei suoli e la progressiva desertificazione di intere regioni, già a partire dai primi millenni dopo la sua comparsa. Nel Settecento, il carbone ha sostituito la legna come sorgente di energia e ha permesso la rivoluzione industriale, ma ha oscurato i cieli, specie in Inghilterra, portando rachitismo e malattie broncopolmonari, per non parlare dello sfruttamento dei minatori. L’era del petrolio e del gas a basso costo ha permesso lo sviluppo di gran parte del mondo contemporaneo, ma ha portato gravissimi problemi di impatto ambientale. La sua fine potrà coincidere con la fine delle società che ha contribuito a creare. Non è chiaro, invece, se l’invenzione dell’energia atomica fornirà un aiuto fondamentale nella transizione a modelli energetici sostenibili, o se provocherà una guerra catastrofica per l’umanità - come ebbe a dire Albert Einstein: «Non so esattamente con che armi sarà combattuta la terza guerra mondiale, ma la quarta sarà combattuta con bastoni e pietre». La rete telematica planetaria promette un livello finora inimmaginabile di comunicazione interumana, con straordinaria accelerazione del processo di diffusione delle novità, ma è intrinsecamente fragile, e ogni suo crollo o discontinuità è destinato ad avere conseguenze molto gravi su società che ne divengono via via più dipendenti. L’evoluzione culturale non ha ancora portato al vero trionfo dell’intelligenza, almeno nell’uomo. Del resto, anche dell’evoluzione culturale si può dire quanto si afferma circa l'evoluzione biologica. Essa non produce necessariamente un miglioramento, ma genera diversità e trasformazione, cioè aumento della varietà disponibile di tratti culturali umani. Esattamente come la biologia, la cultura evolve in funzione dell’adattamento di una specie al suo ambiente. Nel caso umano, la cultura si è rivelata il più potente strumento di adattamento a disposizione della nostra specie. Alcune innovazioni culturali hanno influenzato in modo importante, nel bene e nel male, la nostra stessa biologia: l’agricoltura e l’allevamento degli animali, per esempio, hanno diffuso ampiamente fra le popolazioni umane le mutazioni che permettono di digerire il glutine contenuto nei cereali, o di digerire ancora il latte dopo che l’allattamento al seno ha avuto termine. Le stesse innovazioni hanno anche aumentato la diffusione tra gli uomini di malattie contagiose, responsabili di importanti epidemie e prima limitate quasi esclusivamente agli animali oggi domestici, quando erano selvatici. Queste invenzioni si sono così trasformate in potenti fattori selettivi. Non bisogna inoltre dimenticare che la Natura non tollera gli eccessi, e che per questo si serve di microrganismi come i virus, il cui ruolo biologico consiste nel regolare ogni esplosione di vita. In misura immensamente superiore a ogni altra specie animale, l’uomo ha infatti adattato l’ambiente alle proprie esigenze, incidendo in profondità sugli habitat naturali e creandone altri artificiali in cui vivere. Si può dire, anzi, che l’ambiente planetario sia oggi un ambiente umano, poiché non vi è praticamente area del pianeta che non rechi i segni dell’intervento dell’uomo. La sorte di parecchie decine di migliaia di specie viventi è ora affidata all’azione umana. Se la progressiva perdita di biodiversità si risolverà in una nuova estinzione di massa, come numerosi indicatori sembrano suggerire, la prossima estinzione non sarà stata indotta da un meteorite, ma dall’uomo. Fonti:
L’essere umano è nato per vivere in un ambiente illuminato dal Sole. Perciò privarsene esponendosi a luce perlopiù artificiale, carente di molte frequenze indispensabili alla vita stessa, determinerebbe una serie di effetti collaterali negativi. La luce del Sole non dovrebbe essere considerata terapeutica: è la sua assenza che in realtà è senza dubbio fortemente nociva per la salute. Esponendosi alla corretta luce solare l’organismo ritorna a funzionare perfettamente come sarebbe normale e giusto che fosse. Potrebbe quasi sembrare l’effetto di un complotto a livello mondiale che vorrebbe che le popolazioni vivano in un precario livello di salute, quello che ha portato tutti al convincimento che i raggi ultravioletti siano nocivi per l’uomo. Il fatto è che a causa di alcuni discutibili studi effettuati, si è arrivati tutti a credere a questa colossale menzogna. La longevità media si è certamente allungata, così come continua però ad aumentare la percentuale di persone che, grazie ad un precario livello di salute, ricorrono ad un consumo spesso irragionevole ed esagerato di farmaci. Nella maggior parte dai casi gli ultravioletti sono per l’organismo un nutriente indispensabile per la vita, e come tutti i nutrienti vanno assunti in giuste dosi. Sembra paradossale, ma gli studi che hanno dimostrato la “tossicità” degli ultravioletti non solo sono molto discutibili, ma sono molto inferiori in numero a quelli che invece ne hanno dimostrato i benefici. Il fatto che i primi siano stati resi noti, almeno per i risultati forniti, e che i secondi siano stati invece ignorati, può portare a porsi delle domande le cui risposte possono essere purtroppo imbarazzanti. Uno degli studi più importanti contro gli ultravioletti è stato condotto nel 1982 dal Medical College of Virginia nel Richmond. A scimmie a cui sono state dilatate le pupille e tenuti aperti gli occhi con divaricatori per esporre la retina a lampade ad ultravioletti da 2.500 Watt per sedici minuti, si sono osservati danni alla retina. Si è da ciò dedotto che gli ultravioletti producono danni alla retina! Altri studi su animali, vere e proprie torture, hanno portato questo genere di ricercatori a conclusioni quali quelle che gli ultravioletti causano cataratta o tumori. Forse sarebbe stato più corretto sostenere che animali torturati con ultravioletti od altri mezzi, ma torturati, possono sviluppare tumori, cataratta o morire. Il risultato è comunque quello che oggi si vive tutti in grave carenza da ultravioletti. Chiariamo meglio il concetto. Tanto per cominciare diciamo che i raggi ultravioletti (UV) sono radiazioni elettromagnetiche le cui lunghezze d’onda si situano tra quelle della luce visibile e quelle delle radiazioni ionizzanti (raggi X e raggi gamma), che non sono altro che radiazioni dotate di sufficiente energia da poter ionizzare gli atomi o le molecole, cioè capaci di interagire con la materia a tal punto da alterarne la struttura atomica/molecolare. (La radiazione ultravioletta è convenzionalmente catalogata tra le radiazioni non ionizzanti, anche se le componenti situate attorno alla lunghezza d'onda di 100 nm - quindi parte degli UV-C, di cui parlerò in seguito - sono già in grado di innescare il meccanismo di ionizzazione di atomi e molecole.) La radiazione solare viene assorbita dall'atmosfera in modo diverso a seconda della banda di frequenza: l'atmosfera assorbe prima di tutto la banda dei raggi infrarossi (60%), poi segue la luce visibile (37%) ed infine i raggi ultravioletti (3%). La radiazione solare viene in gran parte assorbita dall'atmosfera terrestre che agisce da vero e proprio filtro; se non fosse per i raggi UV, infatti, noi non esisteremmo nemmeno, perché sono proprio queste radiazioni che danno luogo a quello strato filtrante dell'atmosfera chiamato ozonosfera, situato nella parte bassa della stratosfera, approsimativamente tra i 20 e i 30 km di quota. Questo strato è costituito da molecole di ozono (O₃) che si forma a partire dall'ossigeno molecolare presente nell'atmosfera (O₂), il quale viene dissociato proprio dai raggi UV. In seguito a questo processo si ottengono due atomi isolati di ossigeno, che in questo caso vengono considerati dei radicali, in quanto, considerata la loro struttura e natura chimica, risultano essere particolarmente reattivi. Pertanto, appena questi radicali incontrano un'altra molecola di ossigeno biatomico, reagiscono formando nuovamente una molecola di ozono. Le radiazioni solari dissociano, poi, una molecola di ozono (O₃) in una di ossigeno biatomico (O₂) ed una di ossigeno monoatomico (O). Infine, durante la notte, l'ossigeno monoatomico, essendo altamente reattivo, si combina con l'ozono per formare due molecole di ossigeno biatomico (O₃ + O → 2 O₂). E il ciclo riparte il giorno successivo. Per mantenere costante la quantità di ozono nella stratosfera, queste reazioni fotochimiche devono essere in perfetto equilibrio fra di loro, ma sono facilmente perturbabili da molecole che possono interferire in questo meccanismo, come i famosi CFC (clorofluorocarburi), e gli ossidi di azoto, la cui fonte principale deriva dal motore a combustione delle nostre automobili. Ma proseguiamo e vediamo perché è così importante che si mantenga un equilibrio attorno a questo prezioso strato di ozono. Bisogna innanzitutto sapere che, a seconda della lunghezza d'onda, i raggi UV si distinguono, in ordine crescente di frequenza, in UV-A, UV-B e UV-C. La maggior parte dei raggi UV che raggiungono la superficie terrestre sono UV-A (98%). Seguono poi i raggi UV-B (2%), mentre gli UV-C sono totalmente assorbiti dall’atmosfera e non raggiungono la crosta terrestre; ed è un bene che sia così perché è proprio quest'ultima componente che, per via della sua elevata energia, non permetterebbe la vita sulla Terra. Gli UV-C sono inoltre una prova inconfutabile dell'impossibilità da parte della vita di svilupparsi spontaneamente nello spazio interstellare. Bisogna infine considerare che lo strato di ozono e la capacità riflettente ambientale determinano variazioni dei livelli di UV che raggiungono la crosta terrestre: la neve, ad esempio, riflette circa l’80% delle radiazioni UV, la sabbia asciutta della spiaggia circa il 15% e l'acqua e l'erba il 5%. In sostanza, senza ghiacciai e senza strato di ozono, le cose potrebbero mettersi piuttosto male per la vita sulla Terra. La scienza ha inoltre dimostrato che il buco dell'ozono è causato in gran parte da composti chimici prodotti dall'uomo o da attività dipendenti comunque dal comportamento umano. Altro fatto importante è che l'intensità degli UV-A che raggiungono la superficie terrestre rimane praticamente costante durante l'anno. Quella degli UV-B è invece influenzata da diversi fattori come la stagione, l'ora del giorno (il 60% delle radiazioni si concentra tra le 10 del mattino e le 2 del pomeriggio), l'altitudine (l'esposizione ai raggi UV aumenta indicativamente del 5% ogni 300 metri. Ad esempio, a 1800 m di quota sul livello del mare, l'esposizione aumenta del 30%; a 2100 m, del 35%, e così via) e infine la latitudine (ai poli l'intensità della radiazione ultravioletta è fino a 1000 volte meno importante rispetto all'equatore). Non da meno è l'influenza della concentrazione di ozono nella stratosfera: infatti se lo strato di ozono si assottiglia dell’1%, l’intensità degli UVB al suolo aumenta del 2%. Il fatto che l'organismo sia esposto ai raggi UV-A durante tutto l'arco dell'anno e che proprio queste radiazioni siano responsabili del photo-aging, suggerisce l'importanza di una protezione cutanea a 360 gradi. Le creme protettive andrebbero infatti applicate non solo d'estate, ma in qualsiasi occasione in cui ci si esponga alla luce solare per lunghi periodi di tempo. A questo proposito, negli ultimi anni il settore dei prodotti solari per proteggere la pelle dalle scottature ha compiuto numerosi passi avanti, soprattutto per quanto riguarda i prodotti biologici. Cosa cambia rispetto ai solari tradizionali? I prodotti eco e bio scelgono i filtri solari fisici (i più comuni sono il biossido di titanio e l'ossido di zinco) in sostituzione dei filtri chimici di sintesi, in modo da proteggere la pelle senza il ricorso a sostanze indesiderate. Essi riducono l'utilizzo dei coloranti, dei conservanti e delle profumazioni sintetiche per limitare i rischi di allergie. Alcuni prodotti eco-bio, sia solari veri e propri che doposole, omettono del tutto le profumazioni, anche naturali, per proteggere le pelli più delicate e sensibili. I danni causati dal Sole sono palesati grazie a telecamere a raggi ultravioletti di cui i dermatologi si servono spesso per mostrare i danni sotto la superficie della pelle. A questo proposito è molto interessante il lavoro realizzato dal fotografo Thomas Leveritt che ha chiesto ai passanti per le strade di Brooklyn di posizionarsi davanti a un obiettivo il quale, grazie a un apposito filtro, era capace di cogliere la luce nella lunghezza d’onda 330-380 nanometri, ovvero in grado di cogliere i raggi ultravioletti. La particolare attrezzatura è riuscita a captare i raggi UV del Sole riflessi sulla pelle. Il risultato? Un viso precocemente invecchiato, con rughe e lentiggini su carnagione spenta, in altre parole i danni che già sono presenti ma che ancora non siamo in grado di vedere, proprio perché sono “latenti” e non si sono ancora mostrati. A questo punto l’intrapredente fotografo ha fornito ai passanti sottoposti al “test” tubetti di protezione solare: una volta spalmati sul viso, questo appariva alla macchina UV totalmente nero, proprio perché le creme in questione sono in grado di assorbire i raggi UV impedendo, come uno “schermo protettivo”, che giungano alla pelle, o perlomeno agli strati inferiori. Una vera e propria barriera protettiva, insomma. Ecco raccolti in un video i risultati dell’”esperimento” di Leveritt, che vuole essere un vero e proprio manifesto contro il cancro e i danni, anche “minori”, conseguenti ad un’incosciente esposizione ai raggi solari. I benefici di una corretta esposizione solare rimangono tuttavia indiscutibili. Ad esempio la radiazione UV-B è fondamentale per la sintesi di un'importantissima vitamina: la vitamina D3, o Colecalciferolo. L'uomo è in grado di sintetizzare il colecalciferolo a partire da un precursore, con funzione di provitamina: il deidrocolesterolo (derivato dal colesterolo per riduzione). Questa provitamina si trova nella pelle, in modo da assorbire l'energia radiante solare (soprattutto le radiazioni UVB) che la trasformano (tramite il processo della fotolisi) in un composto intermedio e instabile chiamato previtamina D3. Tale intermedio, nell'arco di 48 ore, si converte in modo spontaneo in un composto termodinamicamente più stabile chiamato appunto Vitamina D3, o colecalciferolo. Per essere attivata, la vitamina D3 sintetizzata a livello cutaneo viene dapprima trasportata al fegato, dove viene trasformata in calcifediolo. Quest'ultimo approda poi ai reni dove viene convertito in calcitriolo. Questa molecola è di fatto un ormone biologicamente attivo ed ha la funzione di favorire l'assorbimento di calcio e fosforo a livello intestinale (favorendo quindi la mineralizzazione, la crescita e il rafforzamento delle ossa) e aumentare la capacità di riassorbire calcio a livello renale, in quanto i reni reperiscono il calcio dalle ossa per tamponare un'eventuale acidità a livello ematico (e quindi un'alterazione del pH del sangue) dovuto in primis da un'alimentazione scorretta. Questo processo aumenta il rischio di osteoporosi.
Oltre a prevenire l'osteoporosi, l'esposizione al Sole previene anche malattie come il rachitismo e aiuta a prevenire fino al 50% delle carie dentali. E dunque il sole è un buon amico delle ossa, ma anche dei denti. Alle nostre latitudini, la quantità di luce solare richiesta per la sintesi di vitamina D è relativamente poca, ma nei mesi estivi è comunque molto importante esporre il volto e le braccia al sole almeno per qualche minuto al giorno, in modo da garantire un'adeguata sintesi cutanea di vitamina D e mettere da parte riserve per l'inverno. La vitamina D è infatti una vitamina liposolubile (insieme alle vitamine A, E e K), ciò significa che viene tesaurizzata a livello del fegato ed utilizzata dall'organismo quando ce n'è più bisogno. È utile poi sapere che le radiazioni UV-B non penetrano il vetro, per cui l'esposizione al Sole tramite una finestra non è funzionale alla sintesi di vitamina D. Ma non finisce qui: i raggi ultravioletti favoriscono la pigmentazione della cute stimolando la produzione di melanina (più precisamente melanina dermale), che è uno dei pigmenti che determina il colore della pelle e la cui funzione principale è di proteggere la pelle dagli effetti dannosi della radiazione ultravioletta. La sintesi della melanina è un processo particolarmente complesso. Tale sintesi inizia a partire dalla tirosina, un amminoacido che possiamo assumere direttamente tramite l'alimentazione (tra le fonti di tirosina si menzionano i prodotti della soia, le mandorle, le banane, i semi di sesamo, l'avocado e i semi di zucca), o che il nostro organismo è in grado di produrre a partire da un altro amminoacido, la fenilalanina (presente soprattutto in alimenti proteici come carne, pesce, uova e legumi). In conclusione, che il Sole sia un nostro amico è cosa nota. Ma anche i buoni amici possono fare qualche brutto scherzo. E se è vero che la saggezza popolare recita da secoli «Casa dove non batte il Sole, entra il medico tutte l’ore», è pur vero che il genio di Napoleone Bonaparte ha riconosciuto che «Anche il Sole ha le sue macchie». Pertanto, ancora una volta mi sento di affermare che per vivere in salute basterebbe seguire tre regole fondamentali: consapevolezza, consapevolezza e consapevolezza. «Knowing is not enough; we must apply. Willing is not enough; we must do.» Il progresso, considerato un bene per l’uomo in termini di durata media e qualità della vita, ha altresì portato a drastici cambiamenti dell’ambiente e delle condizioni di vita sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, che si riflettono in abitudini alimentari per lo più scorrette già a partire dall’età evolutiva. Vivere in una società moderna ha portato allo sviluppo di nuove patologie cronico-degenerative, che potremmo tranquillamente definire patologie del comfort, sempre più comuni e disabilitanti e particolarmente frequenti nelle nuove generazioni “dell’agiatezza”, dove alimentazione scorretta e sedentarietà rappresentano i due cardini della vita ordinaria. L'alimentazione è in grado di influenzare anche profondamente lo stato di salute sia degli individui che delle comunità; esiste un largo consenso circa il nesso di causalità per alcune forme morbose, quali coronaropatie ischemiche, malattie cerebro-vascolari, tumori, cirrosi epatica, diabete non insulino dipendente, obesità e osteoporosi, anemie nutrizionali e disordini da carenza di iodio. L’allarme principale è dovuto all’incremento della frequenza con cui i più giovani acquisiscono sempre di più comportamenti del tutto sovrapponibili a quelli degli adulti nello stile di vita: sempre più sedentari e sempre più obesi. Le scelte di vita che riguardano la salute vengono acquisiti durante l’età evolutiva e in parte sono determinati dal contesto familiare, in parte da quello sociale. Numerosi studi hanno dimostrato che i fattori socioeconomici influenzano le scelte alimentari (dieta) come quelle di stile di vita (attività fisica, fumo) allo stesso modo nell’arco di tutta la vita. Secondo quanto riportato dal World Livestock 2013 redatto dalla FAO (L'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), il 70% delle nuove malattie che sono emerse tra gli esseri umani negli ultimi decenni sono di origine animale e, in parte, direttamente connesse con la ricerca di maggior cibo di origine animale. A rimetterci non è solo la nostra salute, ma bensì anche quella dell'ambiente che ci circonda, a cui la vita di ognuno di noi è profondamente legata. Attualmente, infatti, un quarto della superficie terrestre è sfruttato per i pascoli bovini, e un terzo delle terre coltivabili del mondo è usato per produrre cibo destinato agli allevamenti. In questi luoghi viene impiegato il 40% della produzione mondiale di cereali. L'agricoltura per gli allevamenti, insomma, impiega molti più ettari di terreno di ogni altra attività umana. Per cambiare tutto ciò manca, almeno in parte, l'informazione. Ma forse il problema non è tanto ciò che scarseggia, quanto ciò che abbonda, e cioè la tendenza a mercificare qualsiasi cosa, compresa la vita stessa. Non a caso, infatti, nell'industria alimentare i settori di produzione di latte, carne bovina, suina e avicola, sono quelli più redditizi. Essi valgono rispettivamente circa 180, 172, 168 e 122 miliardi di dollari all'anno (dati riferiti all'anno 2010). Redditizi, certo, ma perlopiù per le tasche delle enormi multinazionali che ne controllano la filiera. Per confronto, la coltivazione di pomodori vale meno di un terzo dell'industria della carne suina, circa 55 miliardi di dollari. Cambiare abitudini alimentari e stile di vita non è solo questione di moda. Vi è in realtà una consapevolezza a monte, raggiunta la quale non può che indurre a correggere eventuali comportamenti scorretti, che si sono protratti nel tempo, di generazione in generazione. Di certo, poi, come affermava anche Goethe, non basta sapere e volere, bisogna anche applicare e fare. A questo proposito vorrei introdurvi la mia ultima pubblicazione. Dopo aver pubblicato, nel dicembre scorso, il saggio Alternativa - Considerazioni su un mondo cieco in cui affronto, per l'appunto, tematiche inerenti l'alimentazione e la nutrizione, esplorandone gli aspetti della filiera produttiva legata ad essa, ho pensato di completare il quadro proponendo un volume a metà tra teoria e pratica. Si intitola A tavola con Ippocrate, in nome del padre della medicina, che circa 2.500 anni fa sintetizzò il suo pensiero sulla relazione tra ciò che mangiamo e la nostra salute esprimendosi più o meno così: «Fa' che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo».
E allora torniamo nella gigantesca biblioteca di Firenze, scegliamo dei libri a caso, senza preoccuparci del loro contenuto. In questo modo, molto probabilmente ci ritroveremmo più volte tra le mani un libro che non ci insegnerà nulla, il che si traduce in un bagaglio culturale ridotto. A far la differenza sono quindi le nostre scelte, quelle consapevoli, che ci portano a prediligere un cibo buono, di qualità, e anche quello giusto per noi, per il nostro organismo».
A tavola con Ippocrate sottolinea l’importanza di basare la propria alimentazione soprattutto su cibi di origine vegetale, passando in rassegna oltre 140 ricette, correlate da curiosità su ciò che mangiamo e approfondimenti sul mondo culinario. |
AutoreOmar Tomaino (Torino, 1986), fotografo, studioso Gli articoli più letti
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